martedì 8 ottobre 2013

Tribunale di Bologna: discriminatorio il requisito del permesso di soggiorno CE per lungosoggiornanti ai fini dell’accesso all’assegno sociale

3.10.2013


Tribunale di Bologna: discriminatorio il requisito del permesso di soggiorno CE per lungosoggiornanti ai fini dell’accesso all’assegno sociale

Per i cittadini del Marocco va applicata la parità di trattamento prevista dall’Accordo di Associazione CE-Regno del Marocco.

Il Tribunale di Bologna, sez. lavoro, con sentenza dd. 30 settembre 2013 (R.G. 2313/2013), ha accolto il ricorso di una cittadina marocchina ultra sessantacinquenne cui era stato negato dall’INPS l’assegno sociale ex art. 3 comma 6 della legge n. 335/95 per mancanza del requisito della carta di soggiorno o permesso di soggiorno CE per lungo soggiornanti richiesto dall’art. 80 c. 19 legge n. 388/2000.
Il Tribunale di Bologna  ha innanzitutto affermato che la suddetta norma introdotta dalla legge n. 388/2000 è stata già dichiarata incostituzionale da diverse pronunce della Corte Costituzionale con riferimento a prestazioni collegate alla disabilità (sentenza n. 306/2008 fino alla n. 40/2013), e le medesime argomentazioni sollevate dal giudice delle leggi debbono ritenersi valide anche ai fini dell’erogazione dell’assegno sociale.
Il Tribunale di Bologna, inoltre, ricorda che i lavoratori marocchini e loro familiari godono del principio di parità di trattamento in materia di prestazioni di sicurezza sociale per effetto della legge 2 agosto 1999, n. 302 di ratifica ed esecuzione dell’Accordo euro-mediterraneo di associazione tra Comunità Europee e Regno del Marocco. Tale accordo, infatti, prevede all’art. 65 un’apposita clausola di parità di trattamento in materia di sicurezza sociale, nozione che va intesa nell’accezione così interpretata dalla Corte di Giustizia europea e tale da ricomprendere non solo le prestazioni contributive ma anche quelle cosiddette “miste” ovvero assistenziali e non sorrette da contributi, ma previste quali diritti soggettivi dalla legislazione vigente, così come riconosciuto anche dalla giurisprudenza di Cassazione (Cass. Sez. lavo n. 17966 del 18 maggio 2011). I beneficiari della clausola di parità di trattamento non sono solo i lavoratori marocchini regolarmente residenti in un Paese UE, ma anche i loro familiari nei quali vanno inclusi anche gli ascendenti, così come riconosciuto dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia europea (causa Mesbah c. Belgio, C-179/98 dd. 11.11.1999).
Di conseguenza il giudice ha  accertato il comportamento discriminatorio dell’INPS nell’aver negato alla ricorrente l’assegno sociale e ha condannato l’amministrazione al pagamento del medesimo dalla data di presentazione della domanda amministrativa, oltre agli interessi legali, nonchè al pagamento delle spese legali del procedimento.
La sentenza del Tribunale di Bologna si aggiunge alle pronunce di diversi tribunali di merito che si erano già  espressi a favore dell’applicabilità diretta nell’ordinamento italiano della clausola di parità di trattamento e non discriminazione in materia di sicurezza sociale contenuta negli accordi di associazione euro-mediterranei. Si possono citare al riguardo almeno le seguenti decisioni giurisdizionali: Tribunale di Genova, ordinanza 3 giugno 2009, Ahmed CHAWQUI c. INPS (relativo all’assegno di invalidità); Tribunale di Verona, ordinanza 14 gennaio 2010, n. 745/09 (relativo all’indennità speciale per i ciechi); Corte di Appello di Torino, sentenza n. 1273/2007 del 14 novembre 2007  (relativa all’indennità di accompagnamento); Tribunale di Tivoli, ordinanza 15 novembre 2011 (R.G.A.C. n. 747/2011, relativa all’ assegno di maternità comunale) ;  Tribunale di Perugia, sez. lavoro, sentenza n. 825/2011 (XX c. Ministero economia e finanze, INPS e Comune di Assisi, relativa alla pensione civile d’invalidità); Tribunale di Lucca, sez. lavoro, sentenza n. 32/2013 del  17 gennaio 2013 (relativa alla pensione di inabilità lavorativa per disabili).
Per approfondimenti si rimanda anche al paragrafo 3.3.1.2. della guida pratica alla  tutela civile contro le discriminazioni etnico-razziali e religiose  (a cura di Walter Citti - . Aggiornata all'agosto 2013).
Si ringrazia per la segnalazione l'avv. Nazzarena Zorzella, del foro di Bologna.
a cura del servizio antidiscriminazioni dell'ASGI. Progetto con il sostegno finanziario della Fondazione italiana a finalità umanitarie  Charlemagne ONLUS.

giovedì 3 ottobre 2013

Malattia provocata da mobbing, no al licenziamento anche oltre il comporto Corte di cassazione

- Sezione lavoro - Sentenza 2 ottobre 2013 n. 22538


È illegittimo il licenziamento del dipendente assente per malattia provocata dall'azione di mobbing che il datore di lavoro esercita su di lui con sanzioni disciplinari spropositate, richiami ingiustificati e visite fiscali a raffica. Lo sottolinea la Cassazione, con la sentenza 22538/2013, affermando che in casi del genere il licenziamento non può scattare nemmeno se l'assenza del lavoratore supera il periodo di comporto. 

Sulla base di questo principio la suprema Corte ha respinto il ricorso con il quale la società 'Bennet Spa’ - proprietaria di un supermercato a Brugherio - chiedeva il licenziamento di Giuseppe B., addetto al reparto macelleria, sostenendo che le continue assenze del dipendente giustificavano la perdita del posto. 

Ma la Cassazione ha confermato, come già stabilito dal tribunale di Monza e poi dalla Corte d'appello del 2010, che erano "imputabili alla responsabilità del datore di lavoro le assenze per malattia" del dipendente e di conseguenza i giorni di assenza erano irrilevanti "ai fini del calcolo del periodo di comporto". 

Giuseppe B., addetto al reparto macelleria, aveva iniziato a ricevere dal luglio 2002 "una numerosa serie di contestazioni disciplinari, con altrettante sanzioni che andavano dalla multa alla sospensione". Durante i periodi di malattia dal mese di dicembre 2002 al febbraio 2003 "era stato sottoposto a ben 15 visite mediche di controllo". Ulteriori e numerose visite fiscali aveva ricevuto dopo il marzo 2003 dopo "l'ennesimo rimprovero" da parte di un superiore che gli aveva provocato una "crisi psicologica".

Nel luglio 2003 fu licenziato per superamento del periodo di comporto. I giudici di merito in seguito a perizia medica accertarono che le assenze per malattia erano "conseguenza dell'ambiente lavorativo e della condotta aziendale" posta in essere ai danni del dipendente "in particolare con le numerose sanzioni disciplinari poi accertate come illegittime". La società oltre a reintegrare il dipendente è stata condannata nei diversi gradi di giudizio anche a risarcirgli i danni per l'ingiusto licenziamento. 

Fonte:
http://www.diritto24.ilsole24ore.com/guidaAlDiritto/civile/civile/sentenzeDelGiorno/2013/10/malattia-provocata-da-mobbing-no-al-licenziamento-anche-oltre-il-comporto_0.html

giovedì 25 luglio 2013

Le novità introdotte dalla riforma Fornero sul contratto a progetto


La legge n. 92 del 2012 voluta dal Ministro Fornero (Riforma del mercato del lavoro) è intervenuta a modificare la disciplina delle collaborazioni coordinate e continuative a progetto, introducendo limiti alla stipula del contratto a progetto. L’obiettivo dichiarato è quello di contrastare decisamente l’utilizzo non corretto di questa tipologia di contratto parasubordinato[1]. L’articolo 1 comma 23, lett. a), della legge n. 92/2012 ha riscritto integralmente l’art. 61, comma 1, del D. Lgs. n. 276/2003.
Il contratto di lavoro a progetto, anche dopo la riforma del mercato del lavoro di cui alla Legge 92/2012, rimane connotato delle sue caratteristiche essenziali.
Il contratto di lavoro a progetto deve avere forma scritta e contenere i seguenti elementi:
·        indicazione della durata che può essere determinata (ad esempio con indicazione di una data specifica), ovvero determinabile (ad esempio con l'individuazione di un elemento ovvero un evento particolare a cui ricondurne la durata);
·        indicazione del progetto;
·        ammontare del corrispettivo erogato e criteri con cui è stato quantificato;
·        indicazione dei tempi e modi di pagamento;
·        indicazione delle modalità di determinazione di eventuali rimborsi spese;
·        forme di coordinamento del lavoratore con il committente;
·        misure di sicurezza adottate nei confronti del lavoratore a progetto.
Pur rimanendo, i predetti requisiti, essenziali del contratto, il legislatore è intervenuto modificando con la Riforma Fornero, diversi aspetti relativi al ricorso al contratto a progetto, soprattutto in termini di requisiti che deve avere il progetto alla base della stipula del contratto nonché il contratto a progetto stesso. I principi introdotti – in sintesi - sono i seguenti:
1.     Progetti specifici. La legge dice: “I rapporti di collaborazione coordinata e continuativa devono essere riconducibili ad uno o più progetti specifici”. Quindi non più a “programmi di lavoro o fase di esso”;
2.     Risultato finale. Il progetto deve essere “funzionalmente collegato ad un determinato risultato finale”. Quindi è stato rafforzato l’ottenimento di uno specifico obiettivo, ossia la realizzazione del progetto;
3.     Descrizione del progetto. Mentre in precedenza era richiesta una indicazione del progetto, ora è necessaria una “descrizione del progetto con individuazione del suo contenuto caratterizzante e del risultato finale che si intende conseguire”;
4.     Non coincidenza con oggetto sociale del committente. Il progetto quindi “non può consistere in una mera riproposizione dell’oggetto sociale del committente”. Quindi viene rafforzata la “specificità” del progetto;
5.     Compiti non meramente esecutivi e ripetitivi. Il progetto “non può comportare lo svolgimento di compiti meramente esecutivi o ripetitivi, che possono essere individuati dai contratti collettivi”[2]. Quindi il collaboratore a progetto deve lavorare con autonomia, anche operativa.

Approfondiamo i punti evidenziati sopra: il contratto deve avere ad oggetto uno o più progetti specifici determinati dal committente e gestiti autonomamente dal collaboratore in funzione del risultato. Viene cassata, nella attuale riforma del lavoro, la modalità di “ lavoro a programma o fase di esso ” delineata dalla Riforma Biagi , che – si ricordi – prevedeva la possibilità di instaurare un rapporto di collaborazione senza uno specifico obiettivo progettuale: Il programma di lavoro o la fase di esso si caratterizzavano, infatti, per la produzione di un risultato solo parziale destinato ad essere integrato, in vista di un risultato finale, da altre lavorazioni e risultati parziali ( Circolare Ministero del Lavoro nr. 1/2004).
Essenza della collaborazione a progetto, rimane l’autonomia del collaboratore nello svolgimento del rapporto e nel perseguimento dell’obiettivo progettuale. Ciò perché l'interesse del creditore  (committente) è relativo al perfezionamento del risultato convenuto e non, come avviene nel lavoro subordinato, alla disponibilità di una prestazione di lavoro etero diretta.
La mancanza in concreto di uno o più predetti elementi , determina la
qualificazione del contratto come rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato.
Secondo la precedente normativa, il corrispettivo deve essere proporzionato alla quantità e qualità del lavoro prestato e deve tenere conto del compenso normalmente corrisposto in caso di lavoro autonomo per una analoga prestazione.
In caso di infortunio, malattia o maternità il contratto viene sospeso, senza erogazione del corrispettivo; le suddette cause non comportano dunque automaticamente la risoluzione del contratto. La sospensione non comporta la proroga del contratto se non è stata espressamente prevista. Il medesimo viene risolto solo se la sospensione si protrae per un periodo superiore ad 1/6 della durata stabilita, se è determinata, oppure per un periodo superiore a 30 giorni, se la durata è determinabile. La sospensione per maternità proroga il contratto per
180 giorni, ma le parti possono eventualmente prevedere un periodo maggiore.
La risoluzione del contratto si ha con la realizzazione del progetto o, meglio, con la realizzazione dell’obiettivo progettuale. Relativamente alle collaborazioni di durata determinabile, il termine della collaborazione viene ad essere funzionale ad un avvenimento futuro, certo nell'anno ,ma non anche necessariamente nel quando.
Secondo le norme dettate dalla riforma Biagi, alle parti veniva data facoltà di recesso prima della scadenza per giusta causa o secondo eventuali diverse modalità concordate tra le parti in sede contrattuale .
Il comma 23 e ss. dell’art. 1 della Legge 92/2012 specifica ulteriormente che il progetto deve essere funzionalmente collegato a un determinato risultato finale e non può consistere in una mera riproposizione dell'oggetto sociale del committente, avuto riguardo al coordinamento con l'organizzazione del committente e indipendentemente dal tempo impiegato per l'esecuzione dell'attività' lavorativa. Si aggiunga che il progetto non può comportare lo svolgimento di compiti meramente esecutivi o ripetitivi, che
possono essere individuati dai contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale.
Tale disposizione va ragionevolmente interpretata nel senso che la contrattazione collettiva può già contenere nelle proprie declaratorie, elementi tali da individuare compiti meramente esecutivi o ripetitivi, come anche, nella contrattazione a venire, potranno essere espressamente individuate tali prestazioni di lavoro , da escludere quindi dalla instaurazione di collaborazioni a progetto.
Tra gli elementi essenziali del contratto a progetto, la novella pone l’accento sulla necessità della descrizione del progetto, con individuazione del suo contenuto caratterizzante e del risultato finale che si intende conseguire. E’ evidente che tali elementi devono essere specifici e chiaramente deducibili. Secondo il nuovo dettato legislativo, l'individuazione di uno specifico progetto costituisce elemento essenziale di validità del rapporto di collaborazione coordinata e continuativa, la cui mancanza determina la costituzione di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato.
Novità anche in relazione al corrispettivo: stabilisce la riforma che il compenso corrisposto ai collaboratori a progetto deve essere proporzionato alla quantità e alla qualità del lavoro eseguito (parametri di difficile applicazione ma già contenuti nel Dlgs 276/2003) e, in relazione a ciò nonchè alla particolare natura della prestazione e del contratto che la regola, non può essere inferiore ai minimi stabiliti in modo specifico per ciascun settore di attività', sulla base dei minimi salariali applicati nel settore medesimo alle mansioni equiparabili svolte dai lavoratori subordinati, dai contratti collettivi sottoscritti dalle organizzazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale a livello interconfederale o di categoria ovvero, su loro delega, ai livelli decentrati.
Il parametrare il corrispettivo dovuto al collaboratore alle analoghe condizioni economiche stabilite nei CCNL , rappresenta una vera e propria inversione di rotta. Si noti, infatti, che il Ministero del Lavoro – nella richiamata circolare nr. 1/2004 in applicazione alle disposizioni ratione temporis di riferimento, aveva sottolineato che “stante la lettera della legge (art. 63) non potranno essere in alcun modo utilizzate le disposizioni in materia di retribuzione stabilite nella contrattazione collettiva per i lavoratori subordinati.”.
In assenza di contrattazione collettiva specifica – prosegue il testo di riforma – il compenso non può essere inferiore, a parità di estensione temporale dell'attività oggetto della prestazione, alle retribuzioni minime previste dai contratti collettivi nazionali di categoria applicati nel settore di riferimento alle figure professionali il cui profilo di competenza e di esperienza sia analogo a quello del collaboratore a progetto.
In sostanza, la mancanza di una contrattazione specifica non giustifica affatto la determinazione di un corrispettivo forfettario o magari concordato tra le parti, dovendosi invece far comunque riferimento a parametri contrattuali perlomeno analoghi o similari.
La complessiva disposizione comporta che è rimesso al committente – in caso di contestazioni specifiche – l’onere della prova di essersi attenuto ad una fonte contrattuale precisamente individuata ai fini della determinazione del corrispettivo. Possono obiettivamente manifestarsi fondate perplessità per la narrata discrezionalità affidata dal legislatore al committente, che potrà comunque essere chiamato alla corresponsione di differenze in aumento sul corrispettivo, ove esista una contrattazione analoga di miglior favore per il collaboratore.
La riforma provvede anche ad innovare le modalità di recesso dal contratto prima della scadenza del termine: ferma restando l’ipotesi di giusta causa esercitabile dal committente, questi può altresì recedere qualora siano emersi oggettivi profili di inidoneità professionale del collaboratore tali da rendere impossibile la realizzazione del progetto. Se da una parte quindi, viene eliminata la facoltà delle parti di adottare clausole particolari di recesso già nell’atto contrattuale, se ne introduce un’altra esclusivamente posta nella discrezionalità del committente.
Anche in questo caso, la sindacabilità della decisione e delle valutazioni del committente poste alla base del recesso, non potrà che essere rimessa al giudice.
Va qui evidenziato che permanendo nell’impianto legislativo le due ipotesi di durata determinata o determinabile del rapporto di lavoro, i sopravvenuti profili di inidoneità del collaboratore, potranno essere fatti valere indifferentemente su ambedue le tipologie: nel secondo caso, infatti, pur non essendo fissato espressamente il termine del rapporto ma essendo fissato unicamente il verificarsi di un evento o una condizione prossimi, anche in tal caso l’inidoneità professionale del collaboratore potrà comunque essere fatta valere in corso di collaborazione.
Sempre in materia di recesso, viene stabilito che il collaboratore può anch’egli recedere prima della scadenza del termine, dandone preavviso, ma solo nel caso in cui tale facoltà sia espressamente prevista nel contratto individuale di lavoro.
Ne consegue, che in mancanza della specifica previsione contrattuale, al lavoratore è di fatto negata la facoltà di recesso anticipato con preavviso, esponendolo – nel caso si verifichi il recesso anticipato – a legittima richiesta di danni da parte del committente per inadempienza contrattuale.
Assolutamente stringente appare infine la norma relativa alle modalità concrete di svolgimento del progetto e, prima ancora, alla sua individuazione.
Si stabilisce infatti che salvo prova contraria a carico del committente, i rapporti di collaborazione coordinata e continuativa, anche a progetto, sono considerati rapporti di lavoro subordinato sin dalla data di costituzione del rapporto, nel caso in cui l'attività del collaboratore sia svolta con modalità analoghe a quella svolta dai lavoratori dipendenti dell'impresa committente, fatte salve le prestazioni di elevata professionalità che possono essere individuate dai contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale.
Ciò ha essenziale rilievo sulla genuinità della collaborazione: il committente pertanto, nella individuazione dello specifico progetto, oltre a escludere modalità meramente esecutive o ripetitive per lo svolgimento del progetto individuato nei suoi specifici elementi caratterizzanti, dovrà preventivamente comparare le prestazioni oggetto della collaborazione con eventuali analoghe modalità espresse dai lavoratori dipendenti dell’impresa, al fine di individuare le differenze in concreto, poste a sostegno della genuinità della collaborazione.
La recente riforma, oggetto di disanima,  ha apportato sostanziali modifiche sulla fattispecie (progetto) e sugli effetti (compenso minimo garantito) rappresentando un forte e generalizzato deterrente all'utilizzo dello strumento contrattuale. Per tutti i profili professionali, anche i più elevati, il nuovo concetto di progetto restringerà la possibilità di ricorrere al lavoro autonomo, pur non restando esente da ambiguità interpretative che potrebbero incidere sulla concorrenza, almeno fino a quando non emergerà un'interpretazione prevalente, per la probabile disomogeneità degli orientamenti giurisprudenziali ed anche per la nota difficoltà degli uffici ispettivi periferici del Ministero del lavoro ad operare secondo criteri standardizzati validi per l'intero territorio nazionale, nonostante la circolare interpretativa che più oltre analizzeremo, sia molto dettagliata. Per i tutti i profili professionali, ma la questione riguarderà soprattutto quelli più bassi, viene meno la caratteristica sino ad oggi più caratterizzante (ed anche più controversa) del lavoro autonomo e, cioè, la possibilità di compensare la prestazione solo in caso di raggiungimento del risultato convenuto e nella misura individualmente concordata.
Se l'intenzione era quella di limitare in generale l'utilizzo del contratto di lavoro a progetto l'obiettivo sembra alla portata di questa riforma, fermi i dubbi (non secondari, quanto ad effetti pratici) nella definizione del concetto di progetto.
Se l'intenzione era invece quella di consentire l'utilizzo del contratto di lavoro a progetto solo per le professionalità più elevate, il doppio limite introdotto dalla riforma (restrizione del concetto di progetto e salario minimo garantito) potrebbe rilevarsi eccessivo. Era forse possibile mettere in discussione la nozione tecnico funzionale di subordinazione a vantaggio di un'attenta valorizzazione del profilo della dipendenza, intesa come soggezione economico sociale del lavoratore. Ed in una siffatta prospettiva era forse possibile lavorare solo sull'aspetto retributivo del lavoro autonomo e non anche sul concetto di progetto, magari legittimando l'accesso a questa tipologia contrattuale solo qualora il corrispettivo pattuito per l'esecuzione dell'opera fosse superiore ad una determinata soglia economica da individuare con riferimento ai livelli retributivi intermedi dei principali contratti collettivi nazionali. Da questo punto di vista le restrizioni all'utilizzo del contratto di lavoro a progetto introdotte dalla riforma sembrano poco selettive e potrebbero quindi pregiudicare, in ragione della più ristretta nozione di progetto, le aspettative della fascia più professionalizzata degli aspiranti







[1] In materia di lavoro autonomo gli interventi della riforma del lavoro del Governo Monti sono tutti orientati in senso restrittivo e perseguono l'evidente obiettivo di indurre il mercato ad un maggiore utilizzo del contratto di lavoro subordinato. È possibile, invero, che proprio questa parte della riforma, sebbene appena modificata, sarà oggetto di ulteriori interventi correttivi. È dunque di primaria importanza non solo approfondire le novità legislative oggi introdotte dalla riforma su prestazioni d'opera, collaborazioni coordinate e continuative e contratto di lavoro a progetto ma anche - ricordato che l'obiettivo centrale della riforma è la crescita sociale ed economica - capire se le innovazioni introdotte sono effettivamente tarate per scongiurare gli abusi o, piuttosto, rischiano di precludere l'accesso ad un particolare segmento del lavoro flessibile che in questi anni ha offerto una soluzione occupazionale per chi ambiva a gestire autonomamente il proprio tempo di lavoro.
[2] Grandi incertezze, derivano dal fatto che ai sensi del novellato art. 61, comma 1°, del d.lgs. n. 276 del 2003, il progetto non può comportare lo svolgimento di compiti meramente esecutivi o ripetitivi, che possono essere individuati dai contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale.
Da un punto di vista sistematico va segnalato, anzitutto, che fino ad oggi anche un'attività ripetitiva poteva essere funzionale alla realizzazione di un determinato risultato finale come avviene, ad esempio, nel caso in cui il committente affidi al collaboratore il progetto di riorganizzare le cartelle di un archivio. Solo per il contratto di lavoro a progetto, e non anche per le altre tipologie contrattuali di lavoro autonomo, è dunque per la prima volta superato il consolidato principio secondo cui qualsiasi attività lavorativa economicamente valutabile poteva essere dedotta in un contratto di lavoro subordinato od autonomo a seconda delle modalità di svolgimento della prestazione.
Ciò premesso, resta comunque da osservare che la disposizione lascia un eccessivo margine di valutazione discrezionale al Giudice, cui spetterà il non agevole compito di distinguere le attività meramente esecutive o ripetitive dalle altre, se non interpretata nel senso che questa limitazione è demandata ad accordi collettivi sottoscritti da organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale cui la legge affida il compito di individuare le attività meramente esecutive e ripetitive.
Difficile, per il vero, capire quale fosse la reale intenzione del legislatore al riguardo. Sembra più plausibile l'interpretazione per la quale il divieto è immediatamente precettivo ("il progetto non può comportare lo svolgimento di compiti meramente esecutivi o ripetitivi") ma suscettibile di specificazione da parte dell'autonomia collettiva (che "può" individuare quei compiti).
Altresì incerto è il livello di contrattazione collettiva autorizzato a tale specificazione giacchè se non v'è dubbio che per i lavoratori l'accordo deve essere sottoscritto da sindacati nazionali comparativamente più rappresentativi non è affatto chiaro se possa trattarsi anche di un contratto collettivo aziendale (dunque sottoscritto da una singola impresa, seppur con le organizzazioni dei lavoratori di livello nazionale).
Il dubbio deriva dal fatto che la legge attribuisce tale facoltà alle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale senza specificare, come invece è stato fatto in altre disposizioni della medesima legge n. 92 del 2012, se il requisito è riferito alle sole rappresentanze dei lavoratori o no.
[3] Assai rilevanti le specificità introdotte per il settore dei call center ove il legislatore, con una modifica apportata all'art. 61 del d.lgs. n. 276 del 2001 in sede di conversione del d.l. n. 83 del 2012, ha rimodulato l'applicabilità della disciplina generale del contratto di lavoro a progetto nel caso in cui il contratto abbia ad oggetto "attività di vendita diretta di beni e servizi realizzate attraverso call center "outbound" per le quali il ricorso ai contratti di collaborazione a progetto è consentito sulla base del corrispettivo definito dalla contrattazione collettiva nazionale di riferimento".
Non c'è dubbio che la novità, qualunque essa sia, è circoscritta ad una tipologia di attività ben individuata con riferimento alla vendita di beni e servizi, effettuata dal collaboratore tramite call center che contattano l'utenza (outbound) producendo chiamate verso l'esterno (l'attività di risposta alle chiamate che provengono dall'esterno è infatti comunemente denominata inbound). Non si tratta dell'unica attività svolta con modalità outbound (basti pensare anche alle indagini statistiche od al recupero crediti) ma certamente è l'unica attività presa in considerazione dal nuovo testo dell'art. 61 del d.lgs. n. 276 del 2001. Ne deriva che per le ulteriori attività effettuate tramite call center outbound continua a trovare applicazione la disciplina comune del lavoro a progetto.
Queste attività di vendita vengono oggi assimilate a quelle degli agenti e dei rappresentanti di commercio, per le quali il d.lgs. n. 276 del 2001 ha escluso sin dal principio l'applicazione della disciplina del lavoro a progetto sul presupposto che i contratti di agenzia e rappresentanza commerciale avessero già - come hanno tutt'ora - una loro tipicità nel codice civile. Il problema, però, è che per le attività di vendita tramite call center outbound non esiste alcun contratto di lavoro tipico e neanche una disciplina specifica che regolamenti l'utilizzo delle collaborazioni autonome. Ne deriva che l'unica disciplina speciale esistente da prendere in considerazione è quella introdotta con il medesimo emendamento che ha modificato l'art. 61 del d.lgs. n. 276 del 2003 che, oggi, per queste attività: a) prevede che siano utilizzati i contratti di collaborazione a progetto ("il ricorso ai contratti di lavoro a progetto è consentito"; c) ma ciò solo "sulla base" del corrispettivo definito dalla contrattazione collettiva di riferimento.
Difficile intendere la portata di questa disciplina speciale e, soprattutto, il suo rapporto con la disciplina generale del contratto di lavoro a progetto.
Anzitutto c'è da chiedersi se per l'attività di vendita realizzata mediante call center outbound il contratto di lavoro a progetto può essere utilizzato solo a condizione che la contrattazione collettiva nazionale di riferimento abbia definito il compenso dovuto oppure no. Che si tratti di una condizione pare abbastanza chiaro nella misura in cui, letteralmente, il ricorso al contratto di lavoro a progetto "è consentito sulla base del corrispettivo ..." la cui strutturazione è oggi - solo per questa particolare categoria di lavoratori a progetto - integralmente rimessa alla contrattazione collettiva nazionale di riferimento, senza i vincoli posti dal nuovo art. 63 del d.lgs. n. 276 del 2003 per i contratti di lavoro a progetto in generale. D'altra parte la disposizione si potrebbe però anche interpretare nel senso che la legge ha autorizzato la contrattazione collettiva a definire il compenso di questi collaboratori in deroga alla disciplina generale con la conseguenza che, in mancanza di specifiche pattuizioni collettive destinate ai venditori dei call center outbound, è alla disciplina generale che le parti devono fare riferimento per la determinazione dei compensi. Interpretazione, quest'ultima, avvalorata dal fatto che diversamente ragionando si dovrebbe arrivare alla conclusione (opposta a quella probabilmente voluta dall'emendamento che proprio per i venditori intendeva agevolare l'utilizzo di questi contratti) che solo per i venditori - e non per le altre categorie di lavoratori a progetto - la legge avrebbe condizionato l'utilizzabilità del contratto all'esistenza di un preventivo accordo sindacale.

Altresì incerto è l'impatto delle modifiche apportate all'art. 61 del d.lgs. n. 276 del 2003 dalla legge n. 134 del 2012 sugli ulteriori profili della disciplina generale del contratto di lavoro a progetto ed, in particolare, sull'individuazione dei requisiti del progetto.
Secondo un prima interpretazione si potrebbe sostenere che per le attività di vendita tramite call center outbound il legislatore ha autorizzato l'utilizzo del contratto di lavoro a progetto in deroga ai suoi presupposti costitutivi. In altri termini, la deroga rispetto alla disciplina generale del contratto di lavoro a progetto riguarderebbe anche la definizione del progetto, che avrebbe una sorta di preventiva autorizzazione da parte del legislatore, con la conseguenza che non opererebbero i limiti delle attività meramente esecutive, della coincidenza con l'oggetto sociale, della riconducibilità ad un determinato risultato finale. Il legislatore avrebbe dunque chiarito che l'attività di vendita realizzata tramite call center outbound è validamente riconducibile ad un progetto e ne può costituire, essa stessa, l'essenza qualificante.
La seconda interpretazione possibile è invece più restrittiva e porterebbe ad affermare che per queste attività si può utilizzare il contratto di lavoro a progetto secondo la disciplina generale dell'istituto con solo due deroghe: a) quella relativa alla determinazione del compenso minimo dovuto, di cui si è già detto; b) nonché quella relativa alla verifica della natura meramente esecutiva o ripetitiva della prestazione, per la quale l'esplicita riconducibilità al progetto dell'attività di vendita sembra destinata a prevalere, quale disposizione speciale, sulla regola generale per la quale "il progetto non può comportare lo svolgimento di compiti meramente esecutivi o ripetitivi". Se così inteso, l'emendamento avrebbe dunque una portata innovativa assai più circoscritta in quanto la riconducibilità al progetto delle attività di vendita resterebbe di fatto possibile solo nel caso in cui il progetto abbia le ulteriori caratteristiche richieste dall'art. 61 del d.lgs. n. 276 del 2003 sotto il profilo della individuazione del risultato finale e della non coincidenza con l'oggetto sociale.

giovedì 11 luglio 2013

Italia condannata perché fa poco per i disabili

La Corte di giustizia dell'Unione Europea ha condannato oggi l'Italia per aver applicato in maniera incompleta i principi stabiliti dal Diritto dell'Unione nell'ambito della parità di trattamento a favore dei disabili nel diritto del lavoro. La Corte si è pronunciata a seguito del ricorso per inadempimento presentato dalla Commissione, in cui Bruxelles osservava come in Italia “le garanzie e le agevolazioni previste a favore dei disabili in materia di occupazione dalla normativa italiana non riguardano tutti i disabili tutti i datori di lavoro e tutti i diversi aspetti del rapporto di lavoro”, come invece stabilisce la direttiva Ue in materia di impiego. 

La Corte oggi ha stabilito che “l'Italia è venuta meno ai propri obblighi” poiché non ha “imposto a tutti i datori di lavoro l'adozione di provvedimenti pratici ed efficaci a favore di tutti i disabili” come previsto dal diritto Ue e dalla convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità. 

da www.guidaaldiritto.it 

Imprese: con la nuova AUA solo una domanda via web

Con il decreto del Presidente della Repubblica 13 marzo 2013 n. 59 - pubblicato nel supplemento ordinario n. 42 alla “Gazzetta Ufficiale” del 29 maggio 2013 n. 124 - costituisce l’ennesimo intervento di semplificazione che, al sistema “chirurgico” di eliminazione di passaggi burocratici non sempre necessari, preferisce l’accorpamento di competenze, nell’ambito di un provvedimento amministrativo unico. Infatti, a partire dal decreto “Semplifica Italia” (Dl 9 febbraio 2012 n. 5 nel testo convertito dalla legge, con modificazioni, dall’articolo 1, comma 1, della legge 4 aprile 2012, n. 35) il Governo prima e il Parlamento hanno ritenuto di semplificare gli adempimenti amministrativi in materia ambientale delle piccole e medie imprese, in relazione agli impianti di modeste dimensioni, ovvero con scarse emissioni (quindi non soggetti ad Autorizzazione integrata ambientale).


Le novità contenute nel Dpr 59/2013
A tal proposito la nuova normativa ha disposto che:
a) l’autorizzazione sostituisce ogni atto di comunicazione, notifica e autorizzazione previsto dalla legislazione vigente in materia ambientale;

b) l’autorizzazione unica ambientale è rilasciata da un unico ente;

c) il procedimento deve essere improntato al principio di proporzionalità degli adempimenti amministrativi, in relazione alla dimensione dell’impresa e al settore di attività, nonché all’esigenza di tutela degli interessi pubblici e non dovrà comportare l’introduzione di maggiori oneri a carico delle imprese.

Queste (poche) regole sono state trasfuse nel Regolamento pubblicato in questi giorni, che - a detta del Governo - dovrebbe garantire risparmi per le Pmi nell’ordine di alcune centinaia di milioni, ancorché non sono stimati gli oneri per la Pa per darne esecuzione.

La portata innovativa è certamente forte; la nuova Aua potrà sostituire sino a 7 autorizzazioni contenute nella legislazione ambientale e l’elenco potrà essere ulteriormente integrato dalla legislazione regionale applicativa. 

La disposizione prevede la presentazione di un’unica domanda da inviare per via telematica a un apposito sportello (Suap); sarà poi questo che provvederà a inoltrare le richieste agli altri enti competenti. È previsto che il rilascio dell’Aua avvenga entro 90 giorni, ma i tempi possono allungarsi nel caso in cui sia necessaria la convocazione della Conferenza di servizi.

L’intervento regolamentare non ha quindi un effetto novativo sul sistema autorizzatorio ambientale; si tratta di un nuovo modello organizzativo che ha l’obiettivo di deburocratizzare il rapporto Pa/Pmi.

Restano invariati i contenuti, gli accertamenti, le valutazioni, le responsabilità di chi agisce nel presentare le domande e nel valutarle, mentre si stabilisce una tempistica certa per la conclusione dell’iter, senza per questo imporre alcuna forma di silenzio-assenso conseguente alla decorrenza dei termini.


L’autorità competente al rilascio - 
Tra i primi temi sui quali è necessario avviare una riflessione vi è quello dell’ente competente al rilascio dell’Aua o - meglio - dell’ente presso il quale deve essere istituito lo sportello unico.
Il Regolamento si limita a stabilire che l’autorità competente è «la Provincia o la diversa autorità indicata dalla normativa regionale quale competente ai fini del rilascio, rinnovo e aggiornamento dell’autorizzazione unica ambientale».

Delle due l’una: o il rilascio dell’Aua non può avvenire in attesa di un intervento legislativo regionale, oppure l’individuazione dell’Ente-Provincia è valida sin tanto che non intervenga una diversa disposizione regionale.
Quest’ultima interpretazione appare più corretta, anche in considerazione della sentita necessità di applicare immediatamente la norma, per rilanciare il sistema economico in crisi.

Non a caso l’articolo 10, comma III, del Regolamento non condiziona la presentazione delle domande all’adozione di un Dm applicativo pur previsto, ma obbliga a presentare la domanda di Aua («...le domande per l’ottenimento dell’autorizzazione unica ambientale sono comunque presentate...») dimostrando così il favor del legislatore per una applicazione immediata.
Alla stessa conclusione si perviene accertando quale sia l’Ente preposto al rilascio dei sette sub-provvedimenti sostituiti (accorpati).  Nella maggior parte dei casi si tratta proprio della Provincia.

Per completezza va segnalato che il parere della Conferenza unificata sulla bozza di Regolamento (Rep. n. 136/cu del 22 novembre 2012) prevedeva la competenza in capo alle regioni, salvo naturalmente l’intervento legislativo regionale.

Si è detto che la domanda per l’Aua è presentata a un apposito Sportello unico. Un caso analogo a quanto accade - ad esempio - in occasione del rilascio del permesso di costruire (l’ex concessione edilizia). 

Il Dpr 380/2001 e successive modifiche ha imposto la costituzione di uno Sportello unico per l’edilizia che rappresenta «l’unico punto di accesso per il privato interessato in relazione a tutte le vicende amministrative riguardanti il titolo abilitativo e l’intervento edilizio oggetto dello stesso, che fornisce una risposta tempestiva in luogo di tutte le pubbliche amministrazioni, comunque coinvolte». L’istituzione dello Sportello, nel caso del procedimento edilizio, è accompagnata da un quadro normativo articolato (il Testo unico appunto) che aiuta l’interprete a comporre la situazione. Non solo.

Nella logica della (vera) semplificazione la norma dispone che una serie di interventi sono sostanzialmente “liberalizzati” (si pensi alla Scia, piuttosto che agli interventi non sottoposti ad alcun atto abilitativo, ex articolo 6).

Il Regolamento in esame, invece, intanto (incomprensibilmente) non si inserisce nel relativo Testo unico (il Dlgs 152/2006 e modifiche) ma, soprattutto, lascia del tutto invariati sistemi e regole dei provvedimenti sottostanti, i quali vengono degradati a sub-provvedimenti di un procedimento unitario.

martedì 11 giugno 2013

Lavoro irregolare, l'irrogazione della sanzione pecuniaria non richiede l’onere di dimostrare l'effettiva durata del rapporto di lavoro


Lavoro

In materia di lavoro irregolare, l’irrogazione della sanzione pecuniaria prevista dall'art. 3, co. 3, D.L.12/2002 (conv. in L. 73/2002) non richiede, da parte dell'Amministrazione, alcun onere di dimostrare l'effettiva durata del rapporto di lavoro irregolare, essendo sufficiente il mero accertamento dell'esecuzione di prestazione lavorativa da parte di soggetto che non risulti da scritture o da altra documentazione obbligatoria. Lo ha affermato la Corte di Cassazione con la sentenza 7 agosto 2013 n. 14370. Nel verbale ispettivo viene dato conto unicamente della situazione riscontrata dagli ispettori al momento dell'accesso in azienda. Il documento, come precisato, non è finalizzato ad individuare la durata dell'illecito ai fini della sanzione amministrativa pecuniaria, essendo sufficiente il riscontro che la prestazione di  lavoro sia stata eseguita da parte del  soggetto non documentabile da scritture obbligatorie. Sul datore di lavoro incombe invece  l’onere specifico di dimostrare l'effettiva durata della prestazione lavorativa per evitare che l'entità della sanzione pecuniaria sia determinata ex lege, "per il periodo compreso tra l'inizio dell'anno e la data di constatazione della violazione.


(fonte: www.diritto.it

lunedì 20 maggio 2013

La dichiarazione di addebito invalida il precedente accordo patrimoniale tra i coniugi


Il patto siglato tra i coniugi al termine di un periodo di crisi matrimoniale per regolare i loro rapporti economici non può essere considerato vincolante in sede di separazione nel caso in cui si sia in presenza di una dichiarazione di addebito. Lo ha stabilito la Corte di cassazione, con la sentenza 10718 di oggi, spiegando che “la dichiarazione di addebito e le conseguenze patrimoniali ad esse ex lege riconducibili (articolo 156, primo e terzo comma Cc) inducono ad escluderne radicalmente la vincolatività”.

I giudici della Suprema corte hanno, invece, accolto il ricorso della moglie in merito alla richiesta dell’assegno alimentare, precedentemente bocciata in appello perché tardiva. Per la Cassazione, infatti, tale domanda “costituisce un minus ricompreso nella più ampia domanda di riconoscimento di un assegno di mantenimento per il coniuge. Si tratta pertanto di una domanda ammissibile, ancorché formulata, in conseguenza della dichiarazione di addebito per la prima volta in appello che non può essere qualificata come nuova ai sensi dell’articolo 345 Cpc, considerata anche la natura degli interessi ad essa sottostanti”.

Corte di cassazione - Sezione I civile - sentenza 8 maggio 2031 n. 10718

Guida in stato di ebbrezza. Condanna ai lavori socialmente utili


Sì ai lavori socialmente utili in alternativa alla sospensione condizionale della pena
Corte di cassazione - Sezione III penale - Sentenza 14 maggio 2013 n. 20726
La richiesta di svolgere i lavori socialmente utili da parte del condannato per guida in stato di ebbrezza non può essere rifiutata perché è stata disposta la sospensione condizionale della pena. Infatti, si tratta di una misura più favorevole al reo che dunque non può essere rifiutata se non nei casi previsti dalla legge. Lo ha stabilito la Cassazione, con la sentenza 20726/2013, censurando la pronuncia della Corte di appello che aveva negato il beneficio perché non avrebbe comportato “ex se la rinuncia implicita al beneficio già concesso della sospensione condizionale, né tanto meno la revoca automatica”. Il collegio perugino si era spinto anche più avanti fornendo un giudizio di “adeguatezza” sulla misura, non previsto dalla legge, in base al quale aveva ritenuto la misura non idonea ad assolvere alla funzione rieducativa per via dell’estrema esiguità della durata della pena.

La Suprema corte, dunque, nel rinviare il giudizio alla Corte di appello, ha affermato i seguenti principi di diritto: “La richiesta da parte del condannato cui sia stato concesso il beneficio della sospensione condizionale della pena, di fruire della pena sostituiva del lavoro di pubblica utilità previsto dal comma 9bis dell’art. 186 cod. strad. implica una rinuncia tacita al beneficio di cui all’art. 163 cod. pen. eventualmente concesso in precedenza, stante la incompatibilità tra i due istituti e non necessita di un consenso espresso, essendo sufficiente la non opposizione dell’interessato in deroga a quanto previsto dall’art. 54 del Dlgs 274/00”.

Inoltre, “La pena sostituiva del lavoro di pubblica utilità costituisce norma di diritto penale sostanziale che trova applicazione secondo principi generali previsti dall’art. 2 del Codice penale e che in concreto risulta più favorevole rispetto al beneficio di cui all’art. 163 cod. pen.”.

E ancora “La decisione che il giudice di merito è chiamato ad adottare in ordine alla applicabilità della sanzione sostitutiva prescinde da valutazioni di tipo discrezionale quanto alla sua durata - ma non alle concrete modalità applicative - ed è legata, da un lato, alla insussistenza delle condizioni ostative previste per legge (circostanza aggravante dell’avere causato un incidente stradale e pregressa fruizione di analoga pena sostituiva) in via alternativa e/o cumulativa e, dall’altro, al requisito positivo della non opposizione da parte del condannato (o di una sua richiesta esplicita o consenso espresso) alla applicazione della pena sostitutiva medesima”.

Infatti, “il criterio di durata e quello di commisurazione della pena sostitutiva rispetto alla pena originaria sono predeterminati per legge e dunque insuscettibili di una valutazione discrezionale da parte del giudice che deve attenersi ai criteri generali di ragguaglio normativamente previsti”.

lunedì 29 aprile 2013

Italia seconda in Ue per pressione fiscale

FISCO LAVORO: Italia seconda in Ue per pressione fiscale -   29 aprile 2013.       La pressione fiscale sul lavoro in Italia nel 2011 è stata del 42,3%, un po’ in calo rispetto al 2010 (42,7%). Il dato è stato reso noto nel rapporto Eurostat sull'evoluzione della fiscalità in Europa nel 2011, e pone il nostro paese al secondo posto tra i 27 superato solo dal Belgio (42,8%) con cui condivideva il primato nell'anno precedente. Tra i grandi paesi europei il carico totale di imposte sul lavoro dipendente è il seguente: in Francia è al 38,6%, in Germania al 37,1%, in Spagna al 33,2%, nel Regno Unito al 26,0%.

martedì 9 aprile 2013

Infortuni sul lavoro, grava sul datore il maggior danno non liquidato dall’Inail

Francesco Machina Grifeo (Guida al Diritto) 21 marzo 2013 - Tribunale di Trento - Sentenza 12 marzo 2013 - A seguito di infortunio sul lavoro, al dipendente va riconosciuto anche il diritto al risarcimento del danno biologico da menomazione permanente eccedente l’ammontare dell’indennizzo erogato dall’Inail: cioè il cosiddetto "danno differenziale". Lo ha stabilito con una articolata sentenza il tribunale di Trento liquidando circa 260 mila euro - di cui 80mila pagati dall’Inail - a titolo di danno "non patrimoniale" ad un uomo che aveva subito una menomazione all’integrità psicofisica del 42% nello svolgimento delle sue mansioni. Secondo il giudice: “Il punto essenziale della questione consiste nello stabilire se il sistema dell’assicurazione obbligatoria gestita dall’Inail svolga o meno una funzione sostitutiva di quella propria del sistema della responsabilità civile”. La diversità ontologica tra indennizzo e risarcimento A questo proposito, osserva la sentenza, la giurisprudenza è unanime nel riconoscere “la diversità ontologica tra indennizzo Inail e risarcimento civilistico in riferimento sia allo scopo (l’uno è volto a garantire, in applicazione dell’art. 38 Cost., i mezzi adeguati al lavoratore infortunato od ammalato per ragioni professionali, l’altro è diretto a ristorare integralmente la lesione al diritto alla salute ex art. 32 Cost. subita dal medesimo), sia alle modalità di attribuzione (certamente più favorevoli per il lavoratore quelle relative all’indennizzo, il quale è contraddistinto da certezza e tempestività in quanto, contrariamente al risarcimento, prescinde dalla solvibilità e dalla volontà del datore di lavoro), sia ai criteri di liquidazione (favorevoli al lavoratore quelli dell’automaticità secondo valori predeterminati e dell’irrilevanza del concorso di colpa previsti per l’indennizzo, mentre in tema di risarcimento il lavoratore è gravato dell’onere di provare il danno subito ed inoltre trova applicazione l’art.1227 co. 1 cod.civ.; svantaggiosi per il lavoratore quelli afferenti la quantificazione del danno risarcibile, stante la discrepanza tra i valori contenuti nelle tabelle di cui al Dm 12.7.2000 ed i parametri adottati dalla giurisprudenza)". La posizione della Cassazione Per esempio in una controversia definita dalla Cassazione (sentenza n. 13887/2004), un dipendente delle Ferrovie dello Stato rimasto vittima di un infortunio sul lavoro, agiva per il risarcimento del danno biologico, pur avendo diritto all’erogazione dell’equo indennizzo (ex art. 68 co. 7 del Dpr 3/1957). A fronte dell’eccezione, sollevata dalla società datrice, secondo cui la disciplina dell’equo indennizzo, in quanto speciale, esclude la risarcibilità del danno biologico, la Suprema Corte, ha statuito che “equo indennizzo e risarcimento, pur avendo lo stesso oggetto ossia la lesione dell’integrità psicofisica, non si identificano in quanto “diversi sono i presupposti normativi” (perché l’uno ha carattere indennitario, l’altro ha natura risarcitoria, l’uno prescinde da qualsiasi inadempimento del datore di lavoro, mentre l’altro presuppone la colpa di costui) e quindi “l‘indennizzo per equo indennizzo non esclude di per sé la più ampia tutela risarcitoria del danno biologico”. Pensione privilegiata e risarcimento In un altro caso (Cassazione 9094/2004), sempre richiamato in sentenza, un carabiniere di leva, essendo rimasto vittima di un infortunio in servizio, pur avendo già ottenuto il riconoscimento della pensione privilegiata (ex art. 64 Dpr 1092/1973) agiva anche per il risarcimento del danno biologico. Di fronte all’eccezione sollevata dall’Amministrazione secondo cui l’ammontare del risarcimento doveva essere diminuito di quanto il danneggiato aveva percepito a titolo pensione privilegiata, la Suprema Corte - “pur ricordando il proprio consolidato orientamento, secondo cui quest’ultima provvidenza ha natura risarcitoria ed affermando che la stessa ristora il pregiudizio all’integrità della persona, prescindendo da indagini sulla capacità di guadagno, e quindi ricomprende anche il danno biologico” - ha ammesso la possibilità di “cumulare la pensione privilegiata con il risarcimento liquidato secondo le regole comuni quando dalla comparazione tra il danno liquidato a nome del codice civile e le somme corrisposte dall’amministrazione (rese omogenee nella comparazione con opportune tecniche di capitalizzazione) risulti che il danno risulti superiore al trattamento corrisposto dall’amministrazione e nei limiti della differenza”. Il ragionamento del giudice A questo punto osserva il giudice diventa “agevole argomentare che, se la Suprema Corte ha ammesso la risarcibilità della quota di danno eccedente l’ammontare di una provvidenza avente natura risarcitoria (qual è la pensione privilegiata), a fortiori lo dovrà essere la quota di danno eccedente l’ammontare di una provvidenza avente natura indennitaria (qual è la prestazione erogata dall’Inail al fine di ristorare il danno biologico permanente)”. Infatti, prosegue il tribunale, “a ben vedere, l’aspetto peculiare del rapporto tra responsabilità civile ed assicurazione obbligatoria gestita dall’Inail non risiede tanto nella risarcibilità del danno differenziale, ma nell’esonero del datore di lavoro dalla responsabilità civile grazie alla presenza dell’assicurazione obbligatoria e fino al concorso delle prestazioni erogate dall’Inail”. In difetto di tale esonero, stante la diversità di funzione (l’una risarcitoria, l’altra indennitaria), non sarebbe consentita neppure la detrazione dell’indennizzo Inail dal risarcimento dovuto dal responsabile civile”. E ciò è quanto accade, per esempio, nei danni provocati dalle vaccinazione obbligatorie dove la vittima può cumulare integralmente l’indennizzo ex lege 210/1992 erogato dallo Stato ed il risarcimento ex 2043 cod.civ. dovuto dall’autore del fatto illecito (Corte Cost. 118/1996). Così anche il risarcimento spettante al pubblico dipendente infortunatosi sul lavoro non viene ridotto da quanto egli ha percepito a titolo di pensione di inabilità (Cass. 10291/2001). Il danno biologico nella sfera Inail Alla base delle decisione, ha ricordato il giudice, vi è il cambio di rotta dovuto alla approvazione del Dlgs 38/2000, articolo 13 commi 1 e 2, a seguito del quale la giurisprudenza della Suprema Corte (ex multis Cassazione 16376/2006) è stata concorde nel ritenere che il danno biologico è entrato nella sfera di operatività dell’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali, consentendo così: a) al lavoratore assicurato di ottenere dall’Inail l’indennizzo del danno biologico permanente previsto dalle nuove norme ex art. 13 Dlgs 38/2000; b) al datore di lavoro assicurante di fruire dell’esonero ex art. 10 Dpr 1124/1965 (abbiamo visto parziale) dalla responsabilità civile per gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali non più in relazione al solo danno patrimoniale, ma anche al danno biologico permanente; c) all’Inail di agire in via di regresso ex art. 11 Dpr 1124/1965 nei confronti del datore di lavoro penalmente responsabile ed in surrogazione ex art. 1916 cod.civ. nei confronti del terzo responsabile per le somme pagate a titolo di indennità a ristoro deI danno patrimoniale e del danno biologico subiti dal lavoratore assicurato. La quota a carico del datore Dunque la cifra che dovrà essere liquidata dal datore per la menomazione corrispondente al danno biologico permanente corrisponde al cosiddetto danno differenziale, ovvero la somma eccedente l’ammantare dell’indennizzo erogato dall’Inail. A questo proposito la sentenza aderisce all’orientamento della giurisprudenza di merito secondo cui, nel caso di invalidità permanente superiore al 15% e, quindi, di corresponsione da parte dell’Inail, sia della rendita a titolo di danno biologico sia della rendita a titolo di danno patrimoniale (per diminuita capacità di lavoro generica), “dall’importo integrale del danno che deve essere risarcito al lavoratore secondo i criteri civilistici, deve essere detratta la capitalizzazione delle singole poste indennitarie erogate dall’Inail, singolarmente considerate - e, quindi, detraendo dall’ammontare dell’integrale danno biologico spettante al lavoratore la capitalizzazione della rendita erogata dall’Inail per il pregiudizio alla salute, e dal danno patrimoniale la capitalizzazione della rendita per la perdita della capacità di lavoro generica - e non già dall’ammontare del danno complessivamente spettante al lavoratore vada detratta la capitalizzazione dell’intera rendita erogata dall’Inail, (ossia la somma di quella erogata a titolo di danno biologico e di quella erogata a titolo di danno patrimoniale)”.

giovedì 4 aprile 2013

È stupro se la vittima dice sì e poi ci ripensa

Corte di cassazione - Sezione III penale - Sentenza 3 aprile 2013 n. 15334 03 aprile 2013. GD Giuris.Lex 24 del 04-04-2013 - RASSEGNA LEX 24- PENALE. "Integra il reato di violenza sessuale la condotta di chi prosegua un rapporto sessuale quando il consenso della vittima, originariamente prestato, venga poi meno a causa di un ripensamento o della non condivisione della modalità di consumazione del rapporto". La Cassazione, con la sentenza 15334/2013, torna, condannando in via definitiva un ventenne piemontese, su un argomento affrontato con esiti diversi. "Il consenso della vittima agli atti sessuali deve perdurare nel corso dell'intero rapporto senza soluzione di continuità". La pronuncia della Cassazione si riferisce al caso di un ventitrenne della provincia di Novara, condannato a 3 anni e sei mesi per stalking, per aver perseguitato, minacciato e molestato la sua ex fidanza (all'epoca minorenne), e violenza sessuale perché con violenza, minaccia e imbavagliandola, l'ha costretta a rapporti sessuali "estremamente violenti". Il ragazzo aveva tra l'altro imposto alla ragazzina pratiche sadiche, sotto la minaccia di diffondere foto che la ritraevano mentre compiva atti sessuali. Il giovane era quindi stato condannato dal Tribunale di Novara e poi dalla Corte d'Appello di Torino. Nel ricorso in Cassazione la difesa ha sostenuto che "trattandosi di un rapporto sadomaso, non si potrebbe ritenere che in ogni momento l'imputato avesse l'obbligo di verificare la persistenza del consenso". La Terza sezione penale, che ha bocciato i motivi di ricorso, concordando con i giudici di merito, ha sottolineato che la ragazza "pur avendo prestato il proprio consenso ad alcuni rapporti, ha manifestato un esplicito dissenso alla successive pratiche estreme poste in essere dall'imputato. Di conseguenza la responsabilità dell'imputato è stata correttamente ritenuta sussistente".

MEDIAZIONE. Con le nuove risoluzioni europee sulla mediazione definizioni rapide e a basso costo

Marina Castellaneta (Guida al Diritto) 27 marzo 2013 La risoluzione alternativa delle controversie in Europa non è decollata. Malgrado gli atti Ue messi sul tappeto, gli Stati membri hanno frapposto ostacoli alla diffusione di meccanismi extraprocessuali. E questo soprattutto, ma non solo, con riguardo alle controversie transfrontaliere. Per superare le disparità tra Stati membri e assicurare ai consumatori la possibilità di ricorrere amezzi facili, efficaci, rapidi e a basso costo, il Parlamento europeo, nella seduta plenaria del 12 marzo 2013, ha approvato la risoluzione sulla proposta di direttiva relativa alla risoluzione alternativa delle controversie dei consumatori, recante modifica del regolamento n. 2006/2004 e della direttiva n. 2009/22 (direttiva sull’Adr per i consumatori), che dovrebbe entrare in vigore entro 24 mesi. La risoluzione, approvata con 617 voti favorevoli, 51 contrari e 5 astenuti, che contiene la posizione assunta dagli eurodeputati in prima lettura, spiana quindi la strada a un rafforzamento degli strumenti Ue in materia di Adr. La nuova direttiva, che dovrà essere approvata dal Consiglio Ue dopo il via libera del Parlamento, punta a rendere disponibile il sistema Adr per ogni controversia sia essa nazionale o transfrontaliera. L’ambito di applicazione - La direttiva sarà applicata a ogni controversia tra consumatori e professionisti «concernenti obbligazioni contrattuali derivanti da contratti di vendita o di servizi sia online sia offline». Sono definiti consumatori le persone fisiche che agiscono per fini che non rientrano nella propria attività commerciale, industriale, artigianale o professionale, mentre professionista è considerata ogni persona fisica o giuridica che, «indipendentemente dal fatto che si tratti di un soggetto privato o pubblico, agisca nel quadro della sua attività commerciale, industriale, artigianale o professionale anche tramite qualsiasi altra persona che agisca in suo nome o per suo conto» (articolo 4). La direttiva fa salva l’applicazione della n. 2008/52 relativa a determinati aspetti della mediazione in materia civile e commerciale, recepita in Italia con il Dlgs n. 28 del 4 marzo 2010, dichiarato in parte incostituzionale con riguardo all’articolo 5, comma 1, a causa dell’eccesso di delega rispetto a quella concessa dal Parlamento con l’articolo 60 della legge 69/2009. Il nuovo testo sarà applicabile a ogni organismo Adr «istituito su base permanente». Vediamo le esclusioni - Restano fuori le procedure relative a sistemi di trattamento dei reclami dei consumatori gestiti da professionisti o in cui imeccanismi siano retribuiti esclusivamente dai professionisti, le controversie relative ai servizi economici di interesse generale, quelle tra professionisti, le controversie che vedono la presentazione di un reclamo da un professionista, quei sistemi che conducono a una negoziazione diretta tra consumatori e professionista, ai tentativi del giudice per comporre la controversia nel corso di un procedimento giudiziario, ai servizi di assistenza sanitaria prestati da professionisti sanitari a pazienti, agli organismi pubblici di istruzione superiore o di formazione continua. Per quanto riguarda i rapporti tra sistemi alternativi su base volontaria e quelli invece considerati obbligatori sul piano nazionale, la direttiva stabilisce che gli Stati possano prevedere l’obbligatorietà del ricorso alle procedure alternative di soluzione delle controversie «a condizione che tale legislazione non impedisca alle parti di esercitare il loro diritto di accedere al sistema giudiziario », garantendo così la piena realizzazione dell’articolo 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea che assicura il diritto alla tutela giurisdizionale effettiva. Inoltre, la direttiva lascia discrezionalità agli Stati nella scelta sull’introduzione o sul mantenimento di procedure di Adr relative a reclami collettivi. Sul fronte Ue, il Parlamento ritiene invece opportuno procedere prima all’acquisizione di una valutazione di impatto per arrivare all’adozione di un atto sulla composizione extragiudiziale di reclami collettivi.

Lavoro accessorio, la dichiarazione preventiva di inizio prestazione in caso di utilizzo di voucher cartacei dovrà essere effettuata direttamente all’Inps

Pubblicato in Prassi amministrativa il 03/04/2013 Lilla Laperuta L’Inps, nella circolare n. 49 del 29 marzo 2013, ha riepilogato tutte le novità intercorse in tema di lavoro occasionale accessorio, tenuto conto in particolare delle modifiche introdotte dalla L. 92/2012 e dalla L. 134/2012, nonché dei chiarimenti contenuti nelle circolari n. 18/2012 e n. 4/2013 del Ministero del Lavoro. Il primo comma dell’articolo 70 D.Lgs. 276/2003, alla luce delle citate modifiche, indica come prestazioni di lavoro accessorio quelle attività lavorative di natura “meramente occasionale” che non danno luogo a compensi complessivamente percepiti dal prestatore superiori a 5.000 euro nel corso di un anno solare, con riferimento alla totalità dei committenti. Il compenso annuale riferito al singolo prestatore, pertanto, come indicato anche dalla circolare n. 4 del Ministero del lavoro, delinea oggettivamente la fattispecie del lavoro occasionale accessorio, in quanto il rispetto del limite di carattere economico per prestatore definisce la legittimità del ricorso al lavoro occasionale di tipo accessorio. Si prevede inoltre che, fermo restando il limite dei compensi fissato in linea generale a 5.000 euro, le prestazioni di natura meramente occasionale svolte a favore di imprenditori commerciali o professionisti, non possono comunque superare i 2.000 euro annui, con riferimento a ciascun committente. Considerato che il nuovo limite economico è sensibilmente più basso rispetto alla normativa previgente, diventa importante, segnala l’Inps, l’acquisizione da parte del committente della dichiarazione rilasciata dal prestatore in ordine al non superamento degli importi massimi annuali, che costituisce elemento necessario e sufficiente ad evitare, in capo al datore di lavoro, eventuali conseguenze di carattere sanzionatorio. Per quanto riguarda le modalità di contatto per effettuare la comunicazione obbligatoria di inizio attività, che attualmente sono differenziate a seconda del canale di acquisto dei buoni lavoro, l’Inps anticipa che, a seguito di un accordo Inail-Inps la dichiarazione preventiva di inizio prestazione in caso di utilizzo di voucher cartacei non potrà più essere effettuata via fax all’Inail, ma direttamente all’Inps attraverso i canali consueti (sito istituzionale, contact center integrato o sede).

martedì 22 gennaio 2013

Nasce il nuovo Blog

 

Una nuova modalità per comunicare in rete. Il nostro è un network di professionisti - Avvocati, Commercialisti, Consulenti del Lavoro e Notai - di consolidata esperienza nel settore legale, che operano prevalentemente a Ravenna e Bologna, coordinato da Francesco Murru, legale abilitato all'esercizio della professione forense, iscritto all'Ordine degli Avvocati di Ravenna, che da anni si occupa di questioni legale al mondo del lavoro e dell'impresa sia profit che no-profit.

La nostra professionalità ed esperienza nei più svariati ambiti è messa al vostro servizio per cercare di soddisfare ogni vostra esigenza.

Nel presente Blog saranno postati artcicoli, interventi e commenti in ambito giuridico.