giovedì 27 novembre 2014

Europa: illegittime le pratiche precarizzanti nella scuola, interviene la Corte di giustizia










Corte di giustizia dell’Unione europea

Lussemburgo, 26 novembre 2014

Sentenza nelle cause riunite C-22/13, C-61/13, C-62/13, C-63/13, C-418/13


La normativa italiana sui contratti di lavoro a tempo determinato nel settore della scuola è contraria al diritto dell’Unione

Il rinnovo illimitato di tali contratti per soddisfare esigenze permanenti e durevoli delle scuole statali non è giustificato.

La normativa italiana prevede un sistema per la sostituzione del personale docente e amministrativo nelle scuole statali1. Secondo tale sistema si provvede, in particolare, alla copertura dei posti effettivamente vacanti e disponibili entro il 31 dicembre mediante supplenze annuali «in attesa dell’espletamento delle procedure concorsuali». Tali supplenze sono effettuate attingendo da graduatorie nelle quali sono iscritti in ordine di anzianità i docenti che hanno vinto un concorso, senza tuttavia ottenere un posto di ruolo, nonché quelli che hanno seguito dei corsi di abilitazione tenuti da scuole di specializzazione per l’insegnamento. I docenti che effettuano siffatte supplenze possono essere immessi in ruolo in funzione dei posti disponibili e della loro progressione in tali graduatorie. L’immissione in ruolo può anche avvenire direttamente in seguito al superamento di concorsi. Tali concorsi sono stati tuttavia interrotti tra il 1999 e il 2011.
Le sig.re Raffaella Mascolo e Carla Napolitano nonché altre persone sono state assunte in istituti pubblici come docenti e collaboratori amministrativi in base a contratti di lavoro a tempo determinato stipulati in successione. Esse hanno lavorato durante periodi differenti, fermo restando che non sono mai state impiegate per meno di 45 mesi su un periodo di 5 anni. Sostenendo l’illegittimità di tali contratti, detti lavoratori hanno chiesto giudizialmente la riqualificazione dei loro contratti in rapporto di lavoro a tempo indeterminato, la loro immissione in ruolo, il pagamento degli stipendi corrispondenti ai periodi di interruzione tra i contratti nonché il risarcimento del danno subito.

La Corte costituzionale nonché il Tribunale di Napoli chiedono alla Corte di giustizia se la normativa italiana sia conforme all’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato2 e, in particolare, se quest’ultimo consenta il rinnovo di contratti di lavoro a tempo determinato per la copertura di posti vacanti e disponibili, in attesa dell’espletamento delle procedure concorsuali per l’assunzione di personale di ruolo delle scuole statali, senza la previsione di tempi certi per l’espletamento dei concorsi ed escludendo qualsiasi risarcimento del danno subito a causa di un siffatto rinnovo.

Nella sua sentenza odierna, la Corte ricorda innanzitutto che l’accordo quadro si applica a tutti i lavoratori, senza che si debba distinguere in base alla natura pubblica o privata del loro datore di lavoro nonché al settore di attività interessato. L’accordo quadro si applica quindi ai lavoratori – docenti o collaboratori amministrativi – assunti per effettuare supplenze annuali nelle scuole pubbliche. Al fine di prevenire l’utilizzo abusivo di una successione di contratti a tempo
determinato, l’accordo quadro impone4 agli Stati membri di prevedere, in primo luogo, almeno una delle seguenti misure: l’indicazione delle ragioni obiettive che giustifichino il rinnovo dei contratti ovvero la determinazione della durata massima totale dei contratti o del numero dei loro rinnovi. Peraltro, al fine di garantire la piena efficacia dell’accordo quadro, una misura sanzionatoria deve essere applicata in caso di utilizzo abusivo di una successione di contratti a tempo determinato. Tale misura deve essere proporzionata, effettiva e dissuasiva.


Le misure di prevenzione

La normativa italiana non prevede alcuna misura che limiti la durata massima totale dei contratti o il numero dei loro rinnovi; essa non prevede neanche misure equivalenti5. In tali circostanze, il rinnovo deve essere giustificato da una «ragione obiettiva», quale la particolare natura delle funzioni, le loro caratteristiche o il perseguimento di una legittima finalità di politica sociale.
Secondo la Corte, la sostituzione temporanea di lavoratori per motivi di politica sociale (congedi per malattia, parentali, per maternità o altri) costituisce una ragione obiettiva che giustifica la durata determinata del contratto.
La Corte rileva inoltre che l’insegnamento è correlato a un diritto fondamentale garantito dalla Costituzione italiana che impone allo Stato italiano di organizzare il servizio scolastico garantendo un adeguamento costante tra il numero di docenti e il numero di scolari, cosa che dipende da un insieme di fattori, taluni difficilmente controllabili o prevedibili. Tali fattori attestano una particolare esigenza di flessibilità, che può oggettivamente giustificare il ricorso a una successione di contratti di lavoro a tempo determinato.
Allo stesso tempo, la Corte ammette che, qualora uno Stato membro riservi, nelle scuole da esso gestite, l’accesso ai posti permanenti al personale vincitore di concorso, tramite l’immissione in ruolo, può altresì oggettivamente giustificarsi che, in attesa dell’espletamento di tali concorsi, i posti da occupare siano coperti con una successione di contratti di lavoro a tempo determinato.
Tuttavia – contrariamente a quanto sostiene il governo italiano – il solo fatto che la normativa nazionale, che consente proprio il rinnovo di contratti di lavoro a tempo determinato per la copertura, tramite supplenze annuali, di posti vacanti e disponibili in attesa dell’espletamento delle procedure concorsuali, possa essere giustificato da una «ragione obiettiva» non è sufficiente a renderla conforme all’accordo quadro, se risulta che l’applicazione concreta di detta normativa conduce, nei fatti, a un ricorso abusivo a una successione di contratti di lavoro a tempo determinato. Ciò si verifica quando tali contratti sono utilizzati per soddisfare esigenze permanenti e durevoli delle scuole statali in materia di personale.
Orbene, la Corte rileva che, nel presente caso, il termine di immissione in ruolo dei docenti nell’ambito di tale regime è variabile e incerto, poiché essa dipende da circostanze aleatorie e imprevedibili. Infatti, da un lato, l’immissione in ruolo per effetto dell’avanzamento dei docenti in graduatoria è in funzione della durata complessiva dei contratti di lavoro a tempo determinato nonché dei posti che sono nel frattempo divenuti vacanti. Dall’altro lato, non è previsto alcun termine preciso per l’organizzazione delle procedure concorsuali. Ne deriva che la normativa italiana, sebbene limiti formalmente il ricorso ai contratti di lavoro a tempo determinato per provvedere a supplenze annuali per posti vacanti e disponibili solo per un periodo temporaneo fino all’espletamento delle procedure concorsuali, non consente di garantire che l’applicazione concreta delle ragioni oggettive sia conforme ai requisiti dell’accordo quadro.

Inoltre, le considerazioni di bilancio non costituiscono di per sé, un obiettivo perseguito dalla politica sociale e, pertanto, non possono giustificare l’assenza di qualsiasi misura diretta a prevenire il ricorso abusivo a una successione di contratti di lavoro a tempo determinato.
Di conseguenza, la normativa italiana non prevede alcuna misura diretta a prevenire il ricorso abusivo a una successione di contratti di lavoro a tempo determinato.

Le misure sanzionatorie
La normativa italiana esclude il risarcimento del danno subito a causa del ricorso abusivo a una successione di contratti di lavoro a tempo determinato nel settore dell’insegnamento. Esso non consente neanche la trasformazione di tali contratti in contratti a tempo indeterminato.
Il fatto che un lavoratore che abbia effettuato supplenze non possa ottenere un contratto a tempo indeterminato se non con l’immissione in ruolo per effetto dell’avanzamento in graduatoria è aleatorio e non costituisce quindi una sanzione sufficientemente effettiva e dissuasiva ai fini di garantire la piena efficacia delle norme adottate in applicazione dell’accordo quadro.
La Corte sottolinea che, sebbene il settore dell’insegnamento testimoni un’esigenza particolare di flessibilità, lo Stato italiano non può esimersi dall’osservanza dell’obbligo di prevedere una misura adeguata per sanzionare debitamente il ricorso abusivo a una successione di contratti di lavoro a tempo determinato.
Per tali motivi, la Corte giunge alla conclusione che l’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato non ammette una normativa che, in attesa dell’espletamento delle procedure concorsuali dirette all’assunzione di personale di ruolo delle scuole statali, autorizzi il rinnovo di contratti a tempo determinato per la copertura di posti vacanti e disponibili di docenti e di personale amministrativo, tecnico e ausiliario, senza indicare tempi certi per l’espletamento di dette procedure concorsuali ed escludendo il risarcimento del danno subito a causa di un siffatto rinnovo.
Tale normativa, infatti, non prevede criteri obiettivi e trasparenti al fine di verificare se il rinnovo risponda ad un’esigenza reale, sia idoneo a conseguire l’obiettivo perseguito e sia necessario a tal fine. Essa non contempla neanche altre misure dirette a prevenire e a sanzionare il ricorso abusivo a siffatti contratti.

IMPORTANTE: Il rinvio pregiudiziale consente ai giudici degli Stati membri, nell'ambito di una controversia della quale sono investiti, di interpellare la Corte in merito all’interpretazione del diritto dell’Unione o alla validità di un atto dell’Unione. La Corte non risolve la controversia nazionale. Spetta al giudice nazionale risolvere la causa conformemente alla decisione della Corte. Tale decisione vincola egualmente gli altri giudici nazionali ai quali venga sottoposto un problema simile.

NOTE: 1) Legge del 3 maggio 1999 n. 124 - Disposizioni urgenti in materia di personale scolastico (GURI n. 107 del 10 maggio 1999)

2) Accordo quadro del 18 marzo 1999 che figura nell’allegato alla direttiva 1999/70/CE del Consiglio, del 28 giugno 1999, relativa all’accordo quadro CES, UNICE e CEEP sul lavoro a tempo determinato (GU L 175, pag. 43).

3) Sentenze della Corte del 4 luglio 2006, Adeneler e a. (causa C-212/04, v. anche comunicato stampa n. 54/06), del 23 aprile 2009, Angelidaki e a. (cause da C-378/07 a C-380/07) e del 11 aprile 2013, Della Rocca (causa C-290/12).


4)Invece, l’accordo quadro non enuncia un obbligo generale degli Stati membri di prevedere la trasformazione dei contratti di lavoro a tempo determinato in un contratti a tempo indeterminato (sentenza della Corte del 3 luglio 2014, Fiamingo e .a., causa C-362/13, v. comunicato stampa n. 92/14).

5) Il decreto legislativo n. 368/2001 enuncia che la disposizione secondo la quale i contratti a tempo determinato di durata superiore a 36 mesi sono trasformati in contratti a tempo indeterminato (consentendo così un numero di rinnovi illimitato di contratti) non si applica alle scuole statali.

6) A seconda degli anni e delle fonti, circa il 30%, o addirittura il 61 % del personale amministrativo, tecnico e ausiliario delle scuole statali sarebbe impiegato con contratti a tempo determinato. Tra il 2006 e il 2011, il personale docente di tali scuole vincolato da siffatti contratti avrebbe rappresentato tra il 13% e il 18% di tutto il personale. Nessuna procedura concorsuale è stata organizzata tra il 2000 e il 2011.




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lunedì 20 ottobre 2014

È colpa del datore se l'operaio cade dalla scala dimenticata da ter

SICUREZZA LAVORO

Corte di cassazione - sezione IV penale - sentenza 17 ottobre 2014 n. 43459

Responsabilità penale per il datore che non elimini attrezzature pericolose per i lavoratori. Il principio vale anche se lo strumento che ha causato l'infortunio sia stato lasciato dalla precedente società andata via. Lo chiarisce la Cassazione con la sentenza n. 43459/2014
I fatti. Alla base della vicenda un operaio che salito su una scala era caduto a terra riportando fratture in diverse parti del corpo. Il Tribunale di Firenze aveva dichiarato il legale rappresentante responsabile di lesione personali (ex articolo 590, commi 1, 2 e 3 del codice penale). La decisione veniva confermata dalla Corte di appello (sentenza 18 maggio 2012). Di qui l'appello dell'imputato in Cassazione. Tra i vari motivi d'impugnazione la mancata concessione del patteggiamento. Sul punto i giudici di merito avevano considerato la gravità del fatto e il grado della colpa e non avevano preso in considerazione la sua incensuratezza e l'occasionalità dell'evento. I Supremi giudici adeguandosi alle sentenze di merito hanno riconosciuto in pieno la responsabilità del legale mrappresentante. 
Modalità dell’infortunio. Questo perchè l'operaio si era infortunato salendo su una scala che non rispettava la normativa antinfortunistica non avendo il mezzo dispositivi antisdrucciolevoli nonchè ganci di trattenuta. E a poco è interessato che la scala si trovasse in quel posto per caso e che quindi l'operaio se ne fosse servito senza chiedere nulla. In questo caso il legale rappresentante avrebbe dovuto verificare che nella struttura fossero presenti mezzi a norma anche se (come nel caso) appartenessero alla precedente azienda da poco andata via. 
Conclusioni. Il fatto che l'operaio infortunato, pur risalendo al medesimo una condotta imprudente e avventata (che comunque il datore di lavoro è tenuto a scongiurare in ottemperanza alle norme di prevenzione antinfortunistica), avesse usato la prima scala esistente a portata di mano senza averne cercata un'altra più sicura per assolvere alle proprie mansioni, non integrava comportamento anomalo o imprevedibile od ontologicamente avulso dalle incombenze allo stesso demandate nell'azienda. Di qui il riconoscimento anche in sede di legittimità della responsabilità del datore.
fonte: | 17/10/2014 - Guida al diritto

mercoledì 15 ottobre 2014

Social network, è reato creare un falso profilo con nome e foto altrui

Social network, è reato creare un falso profilo con nome e foto altrui

Andrea Alberto Moramarco

Integra il reato di sostituzione di persona, ai sensi dell'articolo 494 del codice penale , la condotta di colui che crei un account su un social network, usando delle foto di una persona del tutto inconsapevole, ed utilizzi il profilo creato per comunicare con altri iscritti e per condividere materiale in rete. Lo ha affermato la Cassazione con la sentenza 25774/2014 .

La vicenda
 - Un ragazzo creava su un noto social network un falso account utilizzando il nome e l'immagine di un'altra persona, descrivendo il falso titolare del profilo in maniera fittizia e volgare, inducendo così in errore gli altri utenti che comunicavano con lui attraverso la chat. I giudici di merito, sia in primo che in secondo grado, avevano condannato l'imputato per il delitto di sostituzione di persona, ritenendo sussistenti tutti gli elementi della fattispecie, dall'attribuzione della diversa identità al danno arrecato all'immagine della vittima.

Le motivazioni
 - In seguito al ricorso, la Cassazione conferma le sentenze di merito ritenendo che la condotta incriminata abbia procurato un vantaggio all'utilizzatore del profilo, consistente nella possibilità di "chattare" con altre persone, e un danno all'immagine e alla dignità della vittima. I giudici ricordano i precedenti casi del fenomeno di sostituzione di persona e comunicazione attraverso posta elettronica e social network e ritengono, semplicemente, che l'utilizzo dell'effige altrui, nonché la descrizione di un profilo poco lusinghiero «consente di riconoscere, oltre all'intento di conseguire un vantaggio non patrimoniale, quello di recare un danno all'altrui reputazione, intesa come l'immagine di sé presso gli altri».

Fonte: Il Quotidiano del Diritto - Andrea alberto Moramarco

martedì 14 ottobre 2014

Svolta sulla responsabilità medica, il paziente deve provare l'errore

SI APPLICA L'ART. 2043 COD. CIV
Svolta sulla responsabilità medica, il paziente deve provare l'errore
13/10/2014

Tribunale di Milano - Sezione I civile - Sentenza 17 luglio 2014


Se davvero si affermerà il principio per cui il rapporto con il medico ha natura extracontrattuale e sarà il paziente a dover dimostrare la colpa del professionista, così sovvertendo alcuni decenni di giurisprudenza, è ancora presto per dirlo. Certo è che dopo la sentenza del tribunale di Milano, datata 17 luglio 2014 (resa nota soltanto in queste ore), molti non esitano a parlare di "svolta". Così è per Roberto Carlo Rossi, presidente dell'Ordine dei medici del capoluogo lombardo: "È una sentenza storica".

La vicenda
La pronuncia dei giudici milanesi riguarda un processo intentato da un paziente al Policlinico di Milano e a un suo medico per un caso di paralisi delle corde vocali. La sentenza, interpretando la legge Balduzzi del 2012, ha stabilito che non è più il medico a dover provare la propria correttezza professionale, ma è il paziente che deve provare la colpa del medico. "Importante, inoltre – prosegue Rossi -, è anche il fatto che la sentenza, in base alla legge, riconosca che la presunta colpa si prescrive in 5 anni e non in 10 come in precedenza".

Balduzzi: una sollecitazione per la Cassazione
Per Renato Balduzzi, ex ministro della Salute e oggi nuovo componente del Csm, che da legislatore era intervenuto nel 2012 con un norma di 'alleggerimento' della colpa lieve del medico si tratta di una sentenza che "va letta come una sollecitazione a riconsiderare la giurisprudenza in materia". Per l'ex ministro però quella dei giudici di Milano "non è una pronuncia nuova, c'era già stato un tribunale di merito che aveva interpretato la norma in questa direzione ma la Cassazione aveva invece confermato l'orientamento tradizionale". "Per questo – ha proseguito - penso che la decisione sia da leggere come una sollecitazione alla Cassazione a riconsiderare la giurisprudenza".

La questione dell'articolo 2043 del c.c.
Da un punto di vista tecnico, secondo la sentenza, sia il tenore letterale dell'articolo 3 comma 1 della legge Balduzzi che l'intenzione del legislatore conducono a ritenere che la responsabilità del medico (e quella degli altri esercenti professioni sanitarie) per condotte che non costituiscono inadempimento di un contratto d'opera (diverso dal contratto concluso con la struttura) venga ricondotta dal legislatore del 2012 alla responsabilità da fatto illecito ex articolo 2043 c.c. e che, dunque, l'obbligazione risarcitoria del medico possa scaturire solo in presenza di tutti gli elementi costitutivi dell'illecito aquiliano (che il danneggiato ha l'onere di provare).

Nulla cambia per le struttura sanitarie
Ogni caso l'alleggerimento della responsabilità (anche) civile del medico "ospedaliero", che deriva dall'applicazione del criterio di imputazione della responsabilità risarcitoria indicato dalla legge Balduzzi (articolo 2043 c.c.), non ha alcuna incidenza sulla distinta responsabilità della struttura sanitaria pubblica o privata (sia essa parte del S.S.N. o una impresa privata non convenzionata), che è comunque di tipo "contrattuale" ex articolo 1218 c.c. (sia che si ritenga che l'obbligo di adempiere le prestazioni per la struttura sanitaria derivi dalla legge istitutiva del S.S.N. sia che si preferisca far derivare tale obbligo dalla conclusione del contratto atipico di "spedalità" o "assistenza sanitaria" con la sola accettazione del paziente presso la struttura).

Il diverso regime
Se dunque il paziente/danneggiato agisce in giudizio nei confronti del solo medico con il quale è venuto in "contatto" presso una struttura sanitaria, senza allegare la conclusione di un contratto con il convenuto, la responsabilità risarcitoria del medico va affermata soltanto in presenza degli elementi costitutivi dell'illecito ex articolo 2043 c.c. che l'attore ha l'onere di provare; se nel caso suddetto oltre al medico è convenuta dall'attore anche la struttura sanitaria presso la quale l'autore materiale del fatto illecito ha operato, la disciplina delle responsabilità andrà distinta (quella ex articolo 2043 c.c. per il medico e quella ex articolo 1218 c.c. per la struttura), con conseguente diverso atteggiarsi dell'onere probatorio e diverso termine di prescrizione del diritto al risarcimento; senza trascurare tuttavia che, essendo unico il "fatto dannoso" (seppur distinti i criteri di imputazione della responsabilità), qualora le domande risultino fondate nei confronti di entrambi i convenuti, essi saranno tenuti in solido al risarcimento del danno a norma dell'articolo 2055 c.c.

Tutto uguale in caso di conclusione di un contratto d'opera
Secondo il tribunale di Milano, dunque, l'articolo 3 comma 1 della legge Balduzzi non incide né sul regime di responsabilità civile della struttura sanitaria (pubblica o privata) né su quello del medico che ha concluso con il paziente un contratto d'opera professionale (anche se nell'ambito della cd attività libero professionale svolta dal medico dipendente pubblico): in tali casi sia la responsabilità della struttura sanitaria (contratto atipico di spedalità o di assistenza sanitaria) sia la responsabilità del medico (contratto d'opera professionale) derivano da inadempimento e sono disciplinate dall'articolo1218 c.c., ed è indifferente che il creditore/danneggiato agisca per ottenere il risarcimento del danno nei confronti della sola struttura, del solo medico o di entrambi.

Il richiamo nella norma suddetta all'obbligo di cui all'articolo 2043 c.c. per l'esercente la professione sanitaria che non risponde penalmente (per essersi attenuto alle linee guida), ma la cui condotta evidenzia una colpa lieve, non ha nessun riflesso sulla responsabilità contrattuale della struttura sanitaria, che ha concluso un contratto atipico con il paziente (o, se si preferisce, è comunque tenuta ex lege ad adempiere determinate prestazioni perché inserita nel S.S.N.) ed è chiamata a rispondere ex articolo1218 c.c. dell'inadempimento riferibile direttamente alla struttura anche quando derivi dall'operato dei suoi dipendenti e/o degli ausiliari di cui si è avvalsa (articolo 1228 c.c.).

Ordine di Milano, ora stop alla medicina difensiva
In conclusione per l'ordine dei medici di Milano la sentenza è positiva anche perché fino ad ora a causa dei costi dei premi assicurativi "molti medici non si sono più limitati a praticare solo le linee guida e le buone pratiche accreditate dalle comunità scientifica, ma si sono 'difesi' richiedendo esami diagnostici non necessari per il paziente e particolarmente onerosi per il servizio sanitario, oppure si rifiutano di trattare i casi più complicati e a rischio denuncia".
Resta ora da comprendere – conclude una nota - la portata di questa sentenza, ovvero se farà giurisprudenza nei confronti di tutti i medici o se, con un'interpretazione restrittiva, avrà un'efficacia limitata al solo ambito ospedaliero".

FONTE: Guida al diritto - Il sole 24 ore

lunedì 29 settembre 2014

Anche nello stupro possibile l'attenuante per "minore gravità"

Corte di cassazione – Sezione penale – Sentenza 25 settembre 2014 n. 39445

Per la Cassazione c'è stupro e stupro. Anche se la violenza carnale è stata "completa", infatti, l'attenuante prevista per i casi di «minore gravità» - con relativo sconto di pena fino a due terzi - non può escludersi a priori. Secondo i giudici di Piazza Cavour, sentenza 39445/201, dunque, è sempre necessaria una valutazione caso per caso delle ripercussioni, anche sul piano psichico, prodotte sulla vittima, non essendo più possibile basarsi unicamente sulla «tipologia dell'atto».

Fonte: http://www.diritto24.ilsole24ore.com/art/guidaAlDiritto/dirittoPenale/2014-09-25/anche-stupro-possibile-attenuante-minore-gravita-185644.php 

Con la riforma della giustizia civile 50mila cause fuori dai tribunali

Oltre 50mila controversie fuori dai tribunali. È questa la prima valutazione d'impatto del decreto legge sulla giustizia civile (n. 132) fatta dallo stesso ministero. Se sia un numero soddisfacente e tale da permettere alla magistratura di aggredire in maniera più intensa l'arretrato e di ridurre la durata delle cause in primo grado è da vedere. Tuttavia, quando ancora non sono noti i contenuti delle correzioni che verranno apportate al testo da parte del Governo per rendere più appetibili le vie alternative di risoluzione delle liti, i numeri sono quelli contenuti nella relazione tecnica depositata in Senato dove ieri l'esame del provvedimento è proseguito con l'audizione delle associazioni forensi.

Nel dettaglio, sul versante della negoziazione assistita, anche se su questo quanto la componente di azzardo della stima è elevata, il ministero della Giustizia ritiene che potranno essere definiti attraverso questa procedura, anche nella sua veste di condizione di procedibilità in alcune aree del contenzioso, circa 35mila controversie. Con un effetto collaterale non proprio irrilevante determinato da una perdita di gettito, da mancato pagamento del contributo unificato, che si aggirerà intorno ai 3 milioni e mezzo.

A queste 35mila controversie destinate a non approdare mai davanti ai giudici se ne aggiungeranno poi altre 17mila. Tanti sono infatti procedimenti di separazione, di divorzio, di cambiamento delle condizioni economiche di entrambi che seguiranno una delle due vie semplificate messa punto dal decreto, una con la presenza necessaria di un avvocato, l'altra davanti all'ufficiale di stato civile. Un numero cui si arriva, spiegano i tecnici di via Arenula, tenendo conto che i procedimenti di separazione e divorzio sopravvenuti in corso d'anno sono circa 80mila, la metà dei quali con figli minori (la presenza di figli minori esclude il ricorso alle vie semplificate). In astratto, quindi, sono circa 40mila i procedimenti che potranno essere interessati dalle novità del decreto legge. Per le stime del ministero 10mila saranno gestiti attraverso la negoziazione assistita, mentre 7mila attraverso l'alternativa davanti all'ufficiale di stato civile.


Fonte: http://www.diritto24.ilsole24ore.com/art/guidaAlDiritto/dirittoCivile/2014-09-25/con-riforma-giustizia-civile-50mila-cause-fuori-tribunali-111546.php 

mercoledì 24 settembre 2014

Il ritardo nel pagamento del canone autorizza lo sfratto


Il mancato pagamento di una sola rata, o anche il semplice ritardo nel versamento, può giustificare la risoluzione del contratto di locazione se previsto da una clausola risolutiva espressa. Lo ha stabilito la Corte di cassazione, con la sentenza 19865/2014, accogliendo il ricorso della società locatrice contro il conduttore di un immobile adibito ad uso commerciale che non aveva ottemperato al pagamento del canone trimestrale



Corte di cassazione - Sezione III civile - Sentenza 22 settembre 2014 n. 19865 - FONTE guida al diritto

Ingiusta detenzione per vizio formale, riparazione slegata dalla "colpa grave"





Chi ha subito il carcere a causa di un vizio dell'ordine di esecuzione derivante da un difetto di notifica della sentenza ha sempre diritto alla riparazione per ingiusta detenzione. Nessun rilievo ha dunque la condotta processuale dell'imputato – in questo caso contumace - che non può essere considerata rilevante al fine di individuarne una «colpa grave» tale da fargli perdere il diritto al risarcimento. Lo ha stabilito la Corte di cassazione, con la sentenza 37845/2014

martedì 15 luglio 2014

La Cassazione interviene sul lavoro festivo infrasettimanale

Sentenza Corte di cassazione, sez. civile, n. 13558/14; Attività prestata in giorno festivo infrasettimanale.
la corte di cassazione con sentenza del 13 giugno 2014, n.13558/14, ha respinto il ricorso del comune di Rieti contro un dipendente della Polizia Municipale, alla quale era stato riconosciuto con le precedenti sentenze il pagamento della maggiorazione per lavoro straordinario festivo.
La Corte, in analogia a recenti sentenze, ultima la sentenza del 6 novembre 2012 n. 23349, richiamata nella premessa del dispositivo, ha ritenuto che il tenore dell’articolo 22, quinto comma del CCNL del 1 settembre 2000 del comparto delle autonomie locali, renda palese la volontà di attribuire al dipendente che presti attività nel giorno festivo ricadente nel turno un’indennità con funzione di compensare il disagio derivante dalla particolare articolazione dell’orario di lavoro, mentre l’articolo 24 del CCNL dello stesso contratto, come modificato dall’art. 14 del CCNL 200/2001, prende in considerazione situazione legate al fatto che l’attività lavorativa viene prestata in giorni lavorativi, ossia indaga l’ipotesi di eccedenza delle ore prestate rispetto al normale orario di lavoro, in forza del lavoro prestato in giorno non lavorativo.
Conclude la Corte che il lavoratore turnista, in ragione del lavoro prestato in giorni festivi, ha diritto:

• Alla maggiorazione di cui al primo comma dell’articolo 24 del CCNL del 1 settembre 2000, come modificato dall’art. 14 del CCNL 200/2001, quando ciò avviene in coincidenza con il giorno destinato al riposo settimanale ( in tal caso la maggiorazione spetta anche in aggiunta al riposo compensativo);
• Alla corresponsione del secondo comma dello stesso articolo (in alternativa al riposo compensativo) quando la prestazione sia effettuata in giorno festivo oltre il normale orario di lavoro;
• Al solo compenso dell’articolo 22 quinto comma, del CCNL del 1 settembre 2000, per la prestazione resa in giorno festivo in regime di turnazione ed entro il normale orario di lavoro.