martedì 8 ottobre 2013

Tribunale di Bologna: discriminatorio il requisito del permesso di soggiorno CE per lungosoggiornanti ai fini dell’accesso all’assegno sociale

3.10.2013


Tribunale di Bologna: discriminatorio il requisito del permesso di soggiorno CE per lungosoggiornanti ai fini dell’accesso all’assegno sociale

Per i cittadini del Marocco va applicata la parità di trattamento prevista dall’Accordo di Associazione CE-Regno del Marocco.

Il Tribunale di Bologna, sez. lavoro, con sentenza dd. 30 settembre 2013 (R.G. 2313/2013), ha accolto il ricorso di una cittadina marocchina ultra sessantacinquenne cui era stato negato dall’INPS l’assegno sociale ex art. 3 comma 6 della legge n. 335/95 per mancanza del requisito della carta di soggiorno o permesso di soggiorno CE per lungo soggiornanti richiesto dall’art. 80 c. 19 legge n. 388/2000.
Il Tribunale di Bologna  ha innanzitutto affermato che la suddetta norma introdotta dalla legge n. 388/2000 è stata già dichiarata incostituzionale da diverse pronunce della Corte Costituzionale con riferimento a prestazioni collegate alla disabilità (sentenza n. 306/2008 fino alla n. 40/2013), e le medesime argomentazioni sollevate dal giudice delle leggi debbono ritenersi valide anche ai fini dell’erogazione dell’assegno sociale.
Il Tribunale di Bologna, inoltre, ricorda che i lavoratori marocchini e loro familiari godono del principio di parità di trattamento in materia di prestazioni di sicurezza sociale per effetto della legge 2 agosto 1999, n. 302 di ratifica ed esecuzione dell’Accordo euro-mediterraneo di associazione tra Comunità Europee e Regno del Marocco. Tale accordo, infatti, prevede all’art. 65 un’apposita clausola di parità di trattamento in materia di sicurezza sociale, nozione che va intesa nell’accezione così interpretata dalla Corte di Giustizia europea e tale da ricomprendere non solo le prestazioni contributive ma anche quelle cosiddette “miste” ovvero assistenziali e non sorrette da contributi, ma previste quali diritti soggettivi dalla legislazione vigente, così come riconosciuto anche dalla giurisprudenza di Cassazione (Cass. Sez. lavo n. 17966 del 18 maggio 2011). I beneficiari della clausola di parità di trattamento non sono solo i lavoratori marocchini regolarmente residenti in un Paese UE, ma anche i loro familiari nei quali vanno inclusi anche gli ascendenti, così come riconosciuto dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia europea (causa Mesbah c. Belgio, C-179/98 dd. 11.11.1999).
Di conseguenza il giudice ha  accertato il comportamento discriminatorio dell’INPS nell’aver negato alla ricorrente l’assegno sociale e ha condannato l’amministrazione al pagamento del medesimo dalla data di presentazione della domanda amministrativa, oltre agli interessi legali, nonchè al pagamento delle spese legali del procedimento.
La sentenza del Tribunale di Bologna si aggiunge alle pronunce di diversi tribunali di merito che si erano già  espressi a favore dell’applicabilità diretta nell’ordinamento italiano della clausola di parità di trattamento e non discriminazione in materia di sicurezza sociale contenuta negli accordi di associazione euro-mediterranei. Si possono citare al riguardo almeno le seguenti decisioni giurisdizionali: Tribunale di Genova, ordinanza 3 giugno 2009, Ahmed CHAWQUI c. INPS (relativo all’assegno di invalidità); Tribunale di Verona, ordinanza 14 gennaio 2010, n. 745/09 (relativo all’indennità speciale per i ciechi); Corte di Appello di Torino, sentenza n. 1273/2007 del 14 novembre 2007  (relativa all’indennità di accompagnamento); Tribunale di Tivoli, ordinanza 15 novembre 2011 (R.G.A.C. n. 747/2011, relativa all’ assegno di maternità comunale) ;  Tribunale di Perugia, sez. lavoro, sentenza n. 825/2011 (XX c. Ministero economia e finanze, INPS e Comune di Assisi, relativa alla pensione civile d’invalidità); Tribunale di Lucca, sez. lavoro, sentenza n. 32/2013 del  17 gennaio 2013 (relativa alla pensione di inabilità lavorativa per disabili).
Per approfondimenti si rimanda anche al paragrafo 3.3.1.2. della guida pratica alla  tutela civile contro le discriminazioni etnico-razziali e religiose  (a cura di Walter Citti - . Aggiornata all'agosto 2013).
Si ringrazia per la segnalazione l'avv. Nazzarena Zorzella, del foro di Bologna.
a cura del servizio antidiscriminazioni dell'ASGI. Progetto con il sostegno finanziario della Fondazione italiana a finalità umanitarie  Charlemagne ONLUS.

giovedì 3 ottobre 2013

Malattia provocata da mobbing, no al licenziamento anche oltre il comporto Corte di cassazione

- Sezione lavoro - Sentenza 2 ottobre 2013 n. 22538


È illegittimo il licenziamento del dipendente assente per malattia provocata dall'azione di mobbing che il datore di lavoro esercita su di lui con sanzioni disciplinari spropositate, richiami ingiustificati e visite fiscali a raffica. Lo sottolinea la Cassazione, con la sentenza 22538/2013, affermando che in casi del genere il licenziamento non può scattare nemmeno se l'assenza del lavoratore supera il periodo di comporto. 

Sulla base di questo principio la suprema Corte ha respinto il ricorso con il quale la società 'Bennet Spa’ - proprietaria di un supermercato a Brugherio - chiedeva il licenziamento di Giuseppe B., addetto al reparto macelleria, sostenendo che le continue assenze del dipendente giustificavano la perdita del posto. 

Ma la Cassazione ha confermato, come già stabilito dal tribunale di Monza e poi dalla Corte d'appello del 2010, che erano "imputabili alla responsabilità del datore di lavoro le assenze per malattia" del dipendente e di conseguenza i giorni di assenza erano irrilevanti "ai fini del calcolo del periodo di comporto". 

Giuseppe B., addetto al reparto macelleria, aveva iniziato a ricevere dal luglio 2002 "una numerosa serie di contestazioni disciplinari, con altrettante sanzioni che andavano dalla multa alla sospensione". Durante i periodi di malattia dal mese di dicembre 2002 al febbraio 2003 "era stato sottoposto a ben 15 visite mediche di controllo". Ulteriori e numerose visite fiscali aveva ricevuto dopo il marzo 2003 dopo "l'ennesimo rimprovero" da parte di un superiore che gli aveva provocato una "crisi psicologica".

Nel luglio 2003 fu licenziato per superamento del periodo di comporto. I giudici di merito in seguito a perizia medica accertarono che le assenze per malattia erano "conseguenza dell'ambiente lavorativo e della condotta aziendale" posta in essere ai danni del dipendente "in particolare con le numerose sanzioni disciplinari poi accertate come illegittime". La società oltre a reintegrare il dipendente è stata condannata nei diversi gradi di giudizio anche a risarcirgli i danni per l'ingiusto licenziamento. 

Fonte:
http://www.diritto24.ilsole24ore.com/guidaAlDiritto/civile/civile/sentenzeDelGiorno/2013/10/malattia-provocata-da-mobbing-no-al-licenziamento-anche-oltre-il-comporto_0.html