giovedì 29 ottobre 2015

Si può usare il Gps per controllare il lavoratore

È legittimo il licenziamento disciplinare irrogato al dipendente allontanatosi dalla sede di lavoro in orario lavorativo fondato sui rilievi del Gps installato sull’auto aziendale in dotazione al lavoratore. Per la Corte, l’utilizzo di tale sistema è lecito perché rientra nei cosiddetti “controlli difensivi”, ovvero quelli intesi a «rilevare mancanze specifiche e comportamenti estranei alla normale attività lavorativa, nonché illeciti». Corte di cassazione – Sezione Lavoro – Sentenza 12 ottobre 2015 n. 20440

martedì 27 ottobre 2015

LA CASSAZIONE INTERVIENE SULLA COLTIVAZIONE DI MARIJUANA

La coltivazione modesta resta offensiva ma può essere non punibile se il fatto è considerato lieve

La condotta di coltivazione di piante da stupefacente può essere ritenuta inoffensiva soltanto ove la sostanza ricavabile non sia idonea a produrre un effetto stupefacente in concreto rilevabile. Peraltro, a fronte di fatti di minore gravità, pur se offensivi, la condotta può essere inquadrata nell’ipotesi di reato autonomo di cui all’articolo 73, comma 5, del Dpr 309/1990, ovvero, ricorrendo le condizioni di legge, può essere dichiarata non punibile ai sensi dell’articolo 131-bis del Cp.
La Suprema Corte di Cassazione torna ancora una volta sul controverso tema del trattamento sanzionatorio da riservare alla condotta di coltivazione di piante da stupefacente, allorquando il prodotto della coltivazione, destinato solo all’uso personale del coltivatore, risulti assolutamente modesto quanto a percentuale di principio attivo.
La sentenza recepisce l’impostazione di rigore già seguita dalle sezioni Unite e dalla giurisprudenza prevalente, che qualifica tale condotta come in ogni caso penalmente rilevante, potendosi addivenire a una pronuncia liberatoria, per l’inoffensività in concreto dell’attività, solo allorquando il prodotto della coltivazione risulti totalmente privo di effetto stupefacente, mentre sarebbe senz’altro punibile e non inoffensiva la condotta che consentisse di produrre un qualche principio attivo stupefacente, anche minimale.
Vengono, per l’effetto, richiuse quelle “aperture” rinvenibili in alcune pronunce di legittimità, laddove, approfondendosi il tema degli interessi tutelati dalla disciplina delle sostanze stupefacenti, si era inteso in senso più estensivo il concetto di offensività della condotta, pervenendo o ratificando una pronuncia liberatoria relativamente a condotte di coltivazione di poche piantine, destinate ovviamente all’uso personale, in grado di produrre stupefacente avente solo un qualche, modesto, effetto drogante.
La decisione, peraltro, pur nella rilevata prospettiva di chiusura, si fa apprezzare perché, a fronte di queste ipotesi, qualificate da una modestissima quantità di principio attivo stupefacente, nel ribadirne la rilevanza penale, perché comunque ritenute offensive, sottolinea la possibilità di inquadrarle, in quanto fatti di minore gravità, nell’ipotesi di reato autonomo di cui al comma 5 dell’articolo 73 del Dpr n. 309 del 1990, ovvero, addirittura, in presenza delle condizioni di legge, di dichiararle non punibili per la ricorrenza del fatto di particolare tenuità ai sensi dell’articolo 131-bis del Cp.
Corte di cassazione - Sezione III penale - Sentenza 7 luglio-22 settembre 2015 n. 38364

lunedì 5 ottobre 2015

Le relazioni contano più del Dna

Il rapporto familiare di fatto prevale sulla biologia e il riconoscimento del figlio da parte di chi sa di non esserne il padre naturale può avere effetti irreversibili anche ai fini ereditari. Questo emerge dall’ordinanza del Tribunale di Firenze del 30 luglio 2015 su un ricorso con il quale due eredi chiedevano in via di urgenza la riesumazione della salma del de cuius per effettuare la prova del Dna da utilizzare ai fini del disconoscimento di paternità di un’altra erede.

Un uomo aveva riconosciuto come propria figlia naturale una bambina che poi aveva vissuto con lui. Successivamente l’uomo aveva contratto matrimonio e aveva avuto un altro figlio.
La figlia riconosciuta prima delle nozze aveva convissuto con il padre e il suo nuovo nucleo familiare per più di 15 anni.
Emergeva nel giudizio che l’uomo era stato sempre consapevole di non essere il padre biologico della figlia che pure aveva riconosciuto come propria; nonostante ciò, egli aveva voluto sempre mantenere la condizione di genitore sia sul piano formale sia sul piano fattuale fino alla sua morte.
Trascorsi circa 14 anni dalla scomparsa dell’uomo, la moglie e il figlio nato dal matrimonio avevano proposto ricorso in via d’urgenza contro l’altra figlia, chiedendo che fosse disposto accertamento tecnico preventivo per verificare la non corrispondenza del Dna delle spoglie mortali del loro congiunto con quello dell’asserita figlia, riconosciuta come naturale, e per poter conseguentemente proporre azione di disconoscimento della paternità per difetto di veridicità.
Il Tribunale di Firenze ha ritenuto con una pronuncia innovativa che tale azione non fosse ammissibile rispetto al riconoscimento compiuto con la consapevolezza della falsità.
Già questo principio era stato affermato dal Tribunale di Civitavecchia con una pronuncia del 19 febbraio 2008 con riguardo al disconoscimento proposto dal soggetto che aveva prima riconosciuto il figlio, consapevole dell’insussistenza di legami biologici.
Ora il giudice fiorentino lo ha esteso anche ai terzi interessati. Ed ha evidenziato che un tale riconoscimento assume la valenza di un atto determinativo di status che appare irretrattabile non solo da chi lo ha effettuato ma anche dai terzi che si troverebbero ad esercitare un diritto sostanzialmente potestativo per eliminare uno status voluto dal soggetto riconoscente e vissuto come parte integrante della propria identità personale dal soggetto riconosciuto.
Nel caso esaminato dal Tribunale di Firenze, la figlia riconosciuta ma non biologica del defunto aveva vissuto la condizione di figlia legittima complessivamente per circa 30 anni, inserita in un nucleo familiare del quale hanno fatto parte anche i terzi che richiedevano il disconoscimento.
L’azione proposta da chi ha convissuto con costei nell’ambito di una dimensione familiare, socialmente e affettivamente riconoscibile, contrasta con criteri di buona fede, solidarietà e reciproco affidamento.
La richiesta di disconoscimento, secondo il giudice toscano, risultava sostenuta da un interesse prevalentemente patrimoniale, legato alla gestione dei beni da cui era composto l’asse ereditario. Ma nella comparazione dei vari interessi il tribunale ha considerato prevalente quello di natura strettamente personale che attiene ai diritti della personalità rispetto a quello che discendeva dall’esigenza di comporre contrasti decisionali sulla manutenzione di beni in comunione ereditaria, evocati nel ricorso.
A fronte di questioni esclusivamente patrimoniali, del tutto sproporzionato e inaccettabile è apparso al giudice il sacrificio del diritto allo status e all’identità personale della convenuta, frutto di un atto di volontà consapevole e responsabile di un soggetto adulto.

di Giovanbattista Tona - Fonte: IL QUOTIDIANO DEL DIRITTO - IL SOLE 24 ORE