giovedì 23 luglio 2015

Spiraglio sugli omessi versamenti


Nella crisi di impresa, l'impegno del patrimonio personale dell'imprenditore con la costituzione di garanzie, l'azzeramento del compenso di amministratore e la richiesta di rateazione delle ritenute non versate ancor prima dell'accertamento fiscale e del procedimento penale devono essere attentamente valutate dal giudice di merito ai fini della sussistenza o meno del dolo nel reato di omesso versamento di ritenute. A fornire queste interessanti indicazioni è la Corte di cassazione, sezione III penale con la sentenza 31930 depositata ieri.

    Il rappresentante legale di una srl veniva condannato per aver omesso di versare le ritenute di acconto effettuate per un importo superiore ai 50.000 euro entro il termine di presentazione della dichiarazione del sostituto di imposta. La condanna era confermata dalla Corte di appello.
    Nel ricorso per cassazione l'imprenditore si difendeva lamentando che il giudice di secondo grado aveva omesso l'esame di alcuni elementi particolarmente importanti dai quali sarebbe emersa l'assenza di dolo. In particolare la società era stata investita da un'improvvisa e grave crisi di liquidità a fronte della quale l'amministratore aveva privilegiato il pagamento delle retribuzioni ai dipendenti e dei debiti delle banche rinviando il versamento delle imposte.
    In effetti vi provvedeva poco dopo la prevista scadenza per circa i 2/3 e per la restante parte presentava richiesta di rateazione ancor prima che giungesse la comunicazione dell'Agenzia delle Entrate. Era poi evidenziato che per fronteggiare la crisi di liquidità l'amministratore aveva impegnato il proprio patrimonio per fornire garanzie agli istituti di credito e si era azzerato il compenso. I giudici di legittimità, pur ricordando che per la commissione del delitto in questione è sufficiente il dolo generico e cioè la coscienza e volontà di non versare all'erario le ritenute certificate in un determinato periodo, hanno accolto il ricorso. La sentenza ricorda al riguardo che, secondo costante orientamento giurisprudenziale, l'imputato può invocare l'assoluta impossibilità di adempiere il debito di imposta quale causa di esclusione della responsabilità penale a condizione che provveda ad assolvere gli oneri di allegazione concernenti sia la non riferibilità a lui stesso della crisi economica che ha investito l'azienda, sia l'impossibilità di fronteggiare la crisi tramite misure idonee da valutarsi in concreto. In altre parole il contribuente deve dimostrare che non era possibile in alcun modo reperire le risorse necessarie per far fronte al puntuale adempimento delle obbligazioni tributarie, pur avendo posto in essere tutte le azioni possibili, anche sfavorevoli per il proprio patrimonio personale, e quindi di non esservi riuscito per cause indipendenti dalla propria volontà ed a lui non imputabili
    Nella specie, la Corte di Appello l'aveva condannato senza però esaminare circostanze particolarmente importanti che avrebbero potuto condurre anche a decisioni differenti in quanto rilevanti ai fini della sussistenza dell'elemento soggettivo. In dettaglio era stato documentato, nell'ottica della genesi della crisi dell'azienda, il dissesto patito dalla società ed il ritardo con cui un ufficio pubblico preposto aveva autorizzato la medesima a svolgere un ampliamento della propria attività commerciale.
    Circa invece le condotte tenute dall'imputato era stato dimostrato: a) l'impegno del proprio patrimonio personale a garanzia di finanziamenti richiesti dalla società agli istituti di credito, b) il pagamento delle somme non versate (in parte a rate) ancor prima della comunicazione dell'Agenzia delle Entrate e quindi del procedimento penale; c) il dimezzamento e poi il completo azzeramento del compenso spettante quale amministratore. Poiché l'esame di tali circostanze è determinante per la valutazione dell'elemento soggettivo dell'imputato, il ricorso è stato accolto con rinvio ad altra sezione della Corte di Appello per un nuovo esame della vicenda.
    di Antonio Iorio Fonte: http://www.quotidianodiritto.ilsole24ore.com/art/tributario/2015-07-22/spiraglio-omessi-versamenti---220316.php?uuid=ACUEJzV

    giovedì 16 luglio 2015

    Lavoratore con handicap: licenziamento illegittimo con il rifiuto a operare in altra sede


    Illegittimo il licenziamento della lavoratrice con handicap - quando venga meno lo specifico settore nella società - e l'azienda non provveda a reintegrarla nella medesima sede. A chiarirlo la Cassazione con la sentenza n. 14829/2015 . 


    La vicenda - La Corte si è trovata alle prese con una vicenda piuttosto complessa che ha visto come protagonista una lavoratrice presso una nota società di consegne che si era vista allontanare dall'impresa per ben due volte. La prima perché l'azienda contestava l'inesistenza presso la sede lavorativa della dipendente di analoga figura professionale da ricoprire. Di qui in primo grado era stata dichiarata l'illegittimità della misura in quanto poteva essere collocata in altra sede. Così l'azienda aveva disposto in prima battuta il trasferimento della lavoratrice con handicap presso la filiale di Milano. A questa scelta la dipendente si era opposta per ovvi motivi logistici. Ma non è tutto. L'azienda aveva accolto la richiesta del prestatore di rimanere a Roma ma l'aveva collocata in una filiale distante più di quaranta chilometri dalla propria abitazione. Di qui il rifiuto della dipendente di recarsi presso il luogo di lavoro, e l'irrogazione di due sanzioni disciplinari con le quali veniva ancora contestato il licenziamento. 
    La Corte d’appello - I giudici di secondo grado hanno eccepito la nullità della misura perché la lavoratrice, pur di rimanere nella propria sede iniziale e venire al tempo stesso incontro al proprio datore, si era detta disponibile a eseguire lavori anche di livello superiore. Peraltro lo stesso giudice di merito aveva accertato mediante apposita istruttoria che lo spostamento avrebbe comportato alla lavoratrice un eccessivo aggravio per raggiungere la nuova sede a cui era stata assegnata. 
    Conclusioni - La Cassazione si è pienamente adeguata alle decisioni dei precedenti gradi ritenendo che sebbene il trasferimento e il licenziamento siano due misure diverse tra loro, tuttavia nel caso specifico e ragionando in particolare sulle condizioni fisiche del prestatore, finivano per intrecciarsi e recare gravi danni al lavoratore. Altro che licenziamento dunque. La Cassazione ha così rigettato le richieste della società di vedersi legittimare l'operato con obbligo di reintegra presso la sede iniziale in una posizione che l'azienda avrebbe dovuto concordare con il proprio dipendente.
    Fonte: Quotidiano Diritto: Il sole 24 ore - di Giampaolo Piagnerelli