Blog dell'Avvocato Francesco Murru, giurista d'impresa, Business Lawyer e mediatore professionale in Bologna, Ravenna e Shenyang (Cina)
mercoledì 24 settembre 2014
Ingiusta detenzione per vizio formale, riparazione slegata dalla "colpa grave"
Chi ha subito il carcere a causa di un vizio dell'ordine di esecuzione derivante da un difetto di notifica della sentenza ha sempre diritto alla riparazione per ingiusta detenzione. Nessun rilievo ha dunque la condotta processuale dell'imputato – in questo caso contumace - che non può essere considerata rilevante al fine di individuarne una «colpa grave» tale da fargli perdere il diritto al risarcimento. Lo ha stabilito la Corte di cassazione, con la sentenza 37845/2014
martedì 15 luglio 2014
La Cassazione interviene sul lavoro festivo infrasettimanale
Sentenza Corte di cassazione, sez. civile, n. 13558/14; Attività prestata in giorno festivo infrasettimanale.
la corte di cassazione con sentenza del 13 giugno 2014, n.13558/14, ha respinto il ricorso del comune di Rieti contro un dipendente della Polizia Municipale, alla quale era stato riconosciuto con le precedenti sentenze il pagamento della maggiorazione per lavoro straordinario festivo.
La Corte, in analogia a recenti sentenze, ultima la sentenza del 6 novembre 2012 n. 23349, richiamata nella premessa del dispositivo, ha ritenuto che il tenore dell’articolo 22, quinto comma del CCNL del 1 settembre 2000 del comparto delle autonomie locali, renda palese la volontà di attribuire al dipendente che presti attività nel giorno festivo ricadente nel turno un’indennità con funzione di compensare il disagio derivante dalla particolare articolazione dell’orario di lavoro, mentre l’articolo 24 del CCNL dello stesso contratto, come modificato dall’art. 14 del CCNL 200/2001, prende in considerazione situazione legate al fatto che l’attività lavorativa viene prestata in giorni lavorativi, ossia indaga l’ipotesi di eccedenza delle ore prestate rispetto al normale orario di lavoro, in forza del lavoro prestato in giorno non lavorativo.
Conclude la Corte che il lavoratore turnista, in ragione del lavoro prestato in giorni festivi, ha diritto:
• Alla maggiorazione di cui al primo comma dell’articolo 24 del CCNL del 1 settembre 2000, come modificato dall’art. 14 del CCNL 200/2001, quando ciò avviene in coincidenza con il giorno destinato al riposo settimanale ( in tal caso la maggiorazione spetta anche in aggiunta al riposo compensativo);
• Alla corresponsione del secondo comma dello stesso articolo (in alternativa al riposo compensativo) quando la prestazione sia effettuata in giorno festivo oltre il normale orario di lavoro;
• Al solo compenso dell’articolo 22 quinto comma, del CCNL del 1 settembre 2000, per la prestazione resa in giorno festivo in regime di turnazione ed entro il normale orario di lavoro.
martedì 8 ottobre 2013
Tribunale di Bologna: discriminatorio il requisito del permesso di soggiorno CE per lungosoggiornanti ai fini dell’accesso all’assegno sociale
3.10.2013
Per i cittadini del Marocco va applicata la parità di trattamento prevista dall’Accordo di Associazione CE-Regno del Marocco.
Tribunale di Bologna: discriminatorio il requisito del permesso di soggiorno CE per lungosoggiornanti ai fini dell’accesso all’assegno sociale
Il Tribunale di Bologna, sez. lavoro, con sentenza dd. 30 settembre 2013 (R.G. 2313/2013), ha accolto il ricorso di una cittadina marocchina ultra sessantacinquenne cui era stato negato dall’INPS l’assegno sociale ex art. 3 comma 6 della legge n. 335/95 per mancanza del requisito della carta di soggiorno o permesso di soggiorno CE per lungo soggiornanti richiesto dall’art. 80 c. 19 legge n. 388/2000.
Il Tribunale di Bologna ha innanzitutto affermato che la suddetta norma introdotta dalla legge n. 388/2000 è stata già dichiarata incostituzionale da diverse pronunce della Corte Costituzionale con riferimento a prestazioni collegate alla disabilità (sentenza n. 306/2008 fino alla n. 40/2013), e le medesime argomentazioni sollevate dal giudice delle leggi debbono ritenersi valide anche ai fini dell’erogazione dell’assegno sociale.
Il Tribunale di Bologna, inoltre, ricorda che i lavoratori marocchini e loro familiari godono del principio di parità di trattamento in materia di prestazioni di sicurezza sociale per effetto della legge 2 agosto 1999, n. 302 di ratifica ed esecuzione dell’Accordo euro-mediterraneo di associazione tra Comunità Europee e Regno del Marocco. Tale accordo, infatti, prevede all’art. 65 un’apposita clausola di parità di trattamento in materia di sicurezza sociale, nozione che va intesa nell’accezione così interpretata dalla Corte di Giustizia europea e tale da ricomprendere non solo le prestazioni contributive ma anche quelle cosiddette “miste” ovvero assistenziali e non sorrette da contributi, ma previste quali diritti soggettivi dalla legislazione vigente, così come riconosciuto anche dalla giurisprudenza di Cassazione (Cass. Sez. lavo n. 17966 del 18 maggio 2011). I beneficiari della clausola di parità di trattamento non sono solo i lavoratori marocchini regolarmente residenti in un Paese UE, ma anche i loro familiari nei quali vanno inclusi anche gli ascendenti, così come riconosciuto dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia europea (causa Mesbah c. Belgio, C-179/98 dd. 11.11.1999).
Di conseguenza il giudice ha accertato il comportamento discriminatorio dell’INPS nell’aver negato alla ricorrente l’assegno sociale e ha condannato l’amministrazione al pagamento del medesimo dalla data di presentazione della domanda amministrativa, oltre agli interessi legali, nonchè al pagamento delle spese legali del procedimento.
La sentenza del Tribunale di Bologna si aggiunge alle pronunce di diversi tribunali di merito che si erano già espressi a favore dell’applicabilità diretta nell’ordinamento italiano della clausola di parità di trattamento e non discriminazione in materia di sicurezza sociale contenuta negli accordi di associazione euro-mediterranei. Si possono citare al riguardo almeno le seguenti decisioni giurisdizionali: Tribunale di Genova, ordinanza 3 giugno 2009, Ahmed CHAWQUI c. INPS (relativo all’assegno di invalidità); Tribunale di Verona, ordinanza 14 gennaio 2010, n. 745/09 (relativo all’indennità speciale per i ciechi); Corte di Appello di Torino, sentenza n. 1273/2007 del 14 novembre 2007 (relativa all’indennità di accompagnamento); Tribunale di Tivoli, ordinanza 15 novembre 2011 (R.G.A.C. n. 747/2011, relativa all’ assegno di maternità comunale) ; Tribunale di Perugia, sez. lavoro, sentenza n. 825/2011 (XX c. Ministero economia e finanze, INPS e Comune di Assisi, relativa alla pensione civile d’invalidità); Tribunale di Lucca, sez. lavoro, sentenza n. 32/2013 del 17 gennaio 2013 (relativa alla pensione di inabilità lavorativa per disabili).
Per approfondimenti si rimanda anche al paragrafo 3.3.1.2. della guida pratica alla tutela civile contro le discriminazioni etnico-razziali e religiose (a cura di Walter Citti - . Aggiornata all'agosto 2013).
Si ringrazia per la segnalazione l'avv. Nazzarena Zorzella, del foro di Bologna.
a cura del servizio antidiscriminazioni dell'ASGI. Progetto con il sostegno finanziario della Fondazione italiana a finalità umanitarie Charlemagne ONLUS.
giovedì 3 ottobre 2013
Malattia provocata da mobbing, no al licenziamento anche oltre il comporto Corte di cassazione
- Sezione lavoro - Sentenza 2 ottobre 2013 n. 22538
È illegittimo il licenziamento del dipendente assente per malattia provocata dall'azione di mobbing che il datore di lavoro esercita su di lui con sanzioni disciplinari spropositate, richiami ingiustificati e visite fiscali a raffica. Lo sottolinea la Cassazione, con la sentenza 22538/2013, affermando che in casi del genere il licenziamento non può scattare nemmeno se l'assenza del lavoratore supera il periodo di comporto.
Sulla base di questo principio la suprema Corte ha respinto il ricorso con il quale la società 'Bennet Spa’ - proprietaria di un supermercato a Brugherio - chiedeva il licenziamento di Giuseppe B., addetto al reparto macelleria, sostenendo che le continue assenze del dipendente giustificavano la perdita del posto.
Ma la Cassazione ha confermato, come già stabilito dal tribunale di Monza e poi dalla Corte d'appello del 2010, che erano "imputabili alla responsabilità del datore di lavoro le assenze per malattia" del dipendente e di conseguenza i giorni di assenza erano irrilevanti "ai fini del calcolo del periodo di comporto".
Giuseppe B., addetto al reparto macelleria, aveva iniziato a ricevere dal luglio 2002 "una numerosa serie di contestazioni disciplinari, con altrettante sanzioni che andavano dalla multa alla sospensione". Durante i periodi di malattia dal mese di dicembre 2002 al febbraio 2003 "era stato sottoposto a ben 15 visite mediche di controllo". Ulteriori e numerose visite fiscali aveva ricevuto dopo il marzo 2003 dopo "l'ennesimo rimprovero" da parte di un superiore che gli aveva provocato una "crisi psicologica".
Nel luglio 2003 fu licenziato per superamento del periodo di comporto. I giudici di merito in seguito a perizia medica accertarono che le assenze per malattia erano "conseguenza dell'ambiente lavorativo e della condotta aziendale" posta in essere ai danni del dipendente "in particolare con le numerose sanzioni disciplinari poi accertate come illegittime". La società oltre a reintegrare il dipendente è stata condannata nei diversi gradi di giudizio anche a risarcirgli i danni per l'ingiusto licenziamento.
Fonte:
http://www.diritto24.ilsole24ore.com/guidaAlDiritto/civile/civile/sentenzeDelGiorno/2013/10/malattia-provocata-da-mobbing-no-al-licenziamento-anche-oltre-il-comporto_0.html
È illegittimo il licenziamento del dipendente assente per malattia provocata dall'azione di mobbing che il datore di lavoro esercita su di lui con sanzioni disciplinari spropositate, richiami ingiustificati e visite fiscali a raffica. Lo sottolinea la Cassazione, con la sentenza 22538/2013, affermando che in casi del genere il licenziamento non può scattare nemmeno se l'assenza del lavoratore supera il periodo di comporto.
Sulla base di questo principio la suprema Corte ha respinto il ricorso con il quale la società 'Bennet Spa’ - proprietaria di un supermercato a Brugherio - chiedeva il licenziamento di Giuseppe B., addetto al reparto macelleria, sostenendo che le continue assenze del dipendente giustificavano la perdita del posto.
Ma la Cassazione ha confermato, come già stabilito dal tribunale di Monza e poi dalla Corte d'appello del 2010, che erano "imputabili alla responsabilità del datore di lavoro le assenze per malattia" del dipendente e di conseguenza i giorni di assenza erano irrilevanti "ai fini del calcolo del periodo di comporto".
Giuseppe B., addetto al reparto macelleria, aveva iniziato a ricevere dal luglio 2002 "una numerosa serie di contestazioni disciplinari, con altrettante sanzioni che andavano dalla multa alla sospensione". Durante i periodi di malattia dal mese di dicembre 2002 al febbraio 2003 "era stato sottoposto a ben 15 visite mediche di controllo". Ulteriori e numerose visite fiscali aveva ricevuto dopo il marzo 2003 dopo "l'ennesimo rimprovero" da parte di un superiore che gli aveva provocato una "crisi psicologica".
Nel luglio 2003 fu licenziato per superamento del periodo di comporto. I giudici di merito in seguito a perizia medica accertarono che le assenze per malattia erano "conseguenza dell'ambiente lavorativo e della condotta aziendale" posta in essere ai danni del dipendente "in particolare con le numerose sanzioni disciplinari poi accertate come illegittime". La società oltre a reintegrare il dipendente è stata condannata nei diversi gradi di giudizio anche a risarcirgli i danni per l'ingiusto licenziamento.
Fonte:
http://www.diritto24.ilsole24ore.com/guidaAlDiritto/civile/civile/sentenzeDelGiorno/2013/10/malattia-provocata-da-mobbing-no-al-licenziamento-anche-oltre-il-comporto_0.html
giovedì 25 luglio 2013
Le novità introdotte dalla riforma Fornero sul contratto a progetto
La legge n. 92 del 2012 voluta dal
Ministro Fornero (Riforma del mercato del lavoro) è intervenuta a modificare la
disciplina delle collaborazioni coordinate e continuative a progetto,
introducendo limiti alla stipula del contratto a progetto. L’obiettivo
dichiarato è quello di contrastare decisamente l’utilizzo non corretto di
questa tipologia di contratto parasubordinato[1]. L’articolo
1 comma 23, lett. a), della legge n. 92/2012 ha riscritto integralmente l’art.
61, comma 1, del D. Lgs. n. 276/2003.
Il contratto di lavoro a progetto,
anche dopo la riforma del mercato del lavoro di cui alla Legge 92/2012, rimane
connotato delle sue caratteristiche essenziali.
Il contratto di lavoro a progetto
deve avere forma scritta e contenere i seguenti elementi:
·
indicazione
della durata che può essere determinata (ad esempio con indicazione di una data
specifica), ovvero determinabile (ad esempio con l'individuazione di un
elemento ovvero un evento particolare a cui ricondurne la durata);
·
indicazione
del progetto;
·
ammontare
del corrispettivo erogato e criteri con cui è stato quantificato;
·
indicazione
dei tempi e modi di pagamento;
·
indicazione
delle modalità di determinazione di eventuali rimborsi spese;
·
forme
di coordinamento del lavoratore con il committente;
·
misure
di sicurezza adottate nei confronti del lavoratore a progetto.
Pur rimanendo, i predetti requisiti,
essenziali del contratto, il legislatore è intervenuto modificando con la
Riforma Fornero, diversi aspetti relativi al ricorso al contratto a progetto,
soprattutto in termini di requisiti che deve avere il progetto alla base della
stipula del contratto nonché il contratto a progetto stesso. I principi
introdotti – in sintesi - sono i seguenti:
1. Progetti specifici. La legge dice: “I rapporti di collaborazione coordinata e continuativa
devono essere riconducibili ad uno o più progetti specifici”. Quindi non più a
“programmi di lavoro o fase di esso”;
2. Risultato finale. Il progetto deve essere “funzionalmente collegato ad un determinato
risultato finale”. Quindi è stato rafforzato l’ottenimento di uno specifico
obiettivo, ossia la realizzazione del progetto;
3. Descrizione del progetto. Mentre in precedenza era richiesta una indicazione del
progetto, ora è necessaria una “descrizione del progetto con individuazione del
suo contenuto caratterizzante e del risultato finale che si intende
conseguire”;
4. Non coincidenza con oggetto sociale del committente. Il progetto quindi “non può
consistere in una mera riproposizione dell’oggetto sociale del committente”.
Quindi viene rafforzata la “specificità” del progetto;
5. Compiti non meramente esecutivi e ripetitivi. Il progetto “non può comportare lo
svolgimento di compiti meramente esecutivi o ripetitivi, che possono essere
individuati dai contratti collettivi”[2].
Quindi il collaboratore a progetto deve lavorare con autonomia, anche
operativa.
Approfondiamo i punti evidenziati
sopra: il contratto deve avere ad oggetto uno o più progetti specifici
determinati dal committente e gestiti autonomamente dal collaboratore in
funzione del risultato. Viene cassata, nella attuale riforma del lavoro, la
modalità di “ lavoro a programma o fase di esso ” delineata dalla Riforma Biagi
, che – si ricordi – prevedeva la possibilità di instaurare un rapporto di
collaborazione senza uno specifico obiettivo progettuale: Il programma di
lavoro o la fase di esso si caratterizzavano, infatti, per la produzione di un
risultato solo parziale destinato ad essere integrato, in vista di un risultato
finale, da altre lavorazioni e risultati parziali ( Circolare Ministero del
Lavoro nr. 1/2004).
Essenza della collaborazione a
progetto, rimane l’autonomia del collaboratore nello svolgimento del rapporto e
nel perseguimento dell’obiettivo progettuale. Ciò perché l'interesse del
creditore (committente) è relativo al
perfezionamento del risultato convenuto e non, come avviene nel lavoro subordinato,
alla disponibilità di una prestazione di lavoro etero diretta.
La mancanza in concreto di uno o più
predetti elementi , determina la
qualificazione del contratto come
rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato.
Secondo la precedente normativa, il
corrispettivo deve essere proporzionato alla quantità e qualità del lavoro
prestato e deve tenere conto del compenso normalmente corrisposto in caso di lavoro
autonomo per una analoga prestazione.
In caso di infortunio, malattia o
maternità il contratto viene sospeso, senza erogazione del corrispettivo; le
suddette cause non comportano dunque automaticamente la risoluzione del
contratto. La sospensione non comporta la proroga del contratto se non è stata
espressamente prevista. Il medesimo viene risolto solo se la sospensione si
protrae per un periodo superiore ad 1/6 della durata stabilita, se è
determinata, oppure per un periodo superiore a 30 giorni, se la durata è
determinabile. La sospensione per maternità proroga il contratto per
180 giorni, ma le parti possono
eventualmente prevedere un periodo maggiore.
La risoluzione del contratto si ha
con la realizzazione del progetto o, meglio, con la realizzazione
dell’obiettivo progettuale. Relativamente alle collaborazioni di durata determinabile,
il termine della collaborazione viene ad essere funzionale ad un avvenimento
futuro, certo nell'anno ,ma non anche necessariamente nel quando.
Secondo le norme dettate dalla
riforma Biagi, alle parti veniva data facoltà di recesso prima della scadenza
per giusta causa o secondo eventuali diverse modalità concordate tra le parti
in sede contrattuale .
Il comma 23 e ss. dell’art. 1 della
Legge 92/2012 specifica ulteriormente che il progetto deve essere
funzionalmente collegato a un determinato risultato finale e non può consistere
in una mera riproposizione dell'oggetto sociale del committente, avuto riguardo
al coordinamento con l'organizzazione del committente e indipendentemente dal
tempo impiegato per l'esecuzione dell'attività' lavorativa. Si aggiunga che il
progetto non può comportare lo svolgimento di compiti meramente esecutivi o
ripetitivi, che
possono essere individuati dai
contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni sindacali comparativamente
più rappresentative sul piano nazionale.
Tale disposizione va ragionevolmente interpretata
nel senso che la contrattazione collettiva può già contenere nelle proprie
declaratorie, elementi tali da individuare compiti meramente esecutivi o ripetitivi,
come anche, nella contrattazione a venire, potranno essere espressamente
individuate tali prestazioni di lavoro , da escludere quindi dalla instaurazione
di collaborazioni a progetto.
Tra gli elementi essenziali del
contratto a progetto, la novella pone l’accento sulla necessità della
descrizione del progetto, con individuazione del suo contenuto caratterizzante
e del risultato finale che si intende conseguire. E’ evidente che tali elementi
devono essere specifici e chiaramente deducibili. Secondo il nuovo dettato
legislativo, l'individuazione di uno specifico progetto costituisce elemento essenziale
di validità del rapporto di collaborazione coordinata e continuativa, la cui
mancanza determina la costituzione di un rapporto di lavoro subordinato a tempo
indeterminato.
Novità anche in relazione al
corrispettivo: stabilisce la riforma che il compenso corrisposto ai
collaboratori a progetto deve essere proporzionato alla quantità e alla qualità
del lavoro eseguito (parametri di difficile applicazione ma già contenuti nel
Dlgs 276/2003) e, in relazione a ciò nonchè alla particolare natura della
prestazione e del contratto che la regola, non può essere inferiore ai minimi stabiliti
in modo specifico per ciascun settore di attività', sulla base dei minimi salariali
applicati nel settore medesimo alle mansioni equiparabili svolte dai lavoratori
subordinati, dai contratti collettivi sottoscritti dalle organizzazioni sindacali
dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative sul
piano nazionale a livello interconfederale o di categoria ovvero, su loro
delega, ai livelli decentrati.
Il parametrare il corrispettivo
dovuto al collaboratore alle analoghe condizioni economiche stabilite nei CCNL
, rappresenta una vera e propria inversione di rotta. Si noti, infatti, che il
Ministero del Lavoro – nella richiamata circolare nr. 1/2004 in applicazione
alle disposizioni ratione temporis di
riferimento, aveva sottolineato che “stante la lettera della legge (art. 63)
non potranno essere in alcun modo utilizzate le disposizioni in materia di
retribuzione stabilite nella contrattazione collettiva per i
lavoratori subordinati.”.
In assenza di contrattazione
collettiva specifica – prosegue il testo di riforma – il compenso non può
essere inferiore, a parità di estensione temporale dell'attività oggetto della
prestazione, alle retribuzioni minime previste dai contratti collettivi
nazionali di categoria applicati nel settore di riferimento alle figure
professionali il cui profilo di competenza e di esperienza sia analogo a quello
del collaboratore a progetto.
In sostanza, la mancanza di una contrattazione
specifica non giustifica affatto la determinazione di un corrispettivo
forfettario o magari concordato tra le parti, dovendosi invece far comunque
riferimento a parametri contrattuali perlomeno analoghi o similari.
La complessiva disposizione comporta
che è rimesso al committente – in caso di contestazioni specifiche – l’onere
della prova di essersi attenuto ad una fonte contrattuale precisamente
individuata ai fini della determinazione del corrispettivo. Possono
obiettivamente manifestarsi fondate perplessità per la narrata discrezionalità
affidata dal legislatore al committente, che potrà comunque essere chiamato alla
corresponsione di differenze in aumento sul corrispettivo, ove esista una
contrattazione analoga di miglior favore per il collaboratore.
La riforma provvede anche ad innovare
le modalità di recesso dal contratto prima della scadenza del termine: ferma
restando l’ipotesi di giusta causa esercitabile dal committente, questi può
altresì recedere qualora siano emersi oggettivi profili di inidoneità
professionale del collaboratore tali da rendere impossibile la realizzazione
del progetto. Se da una parte quindi, viene eliminata la facoltà delle parti di
adottare clausole particolari di recesso già nell’atto contrattuale, se ne
introduce un’altra esclusivamente posta nella discrezionalità del committente.
Anche in questo caso, la
sindacabilità della decisione e delle valutazioni del committente poste alla
base del recesso, non potrà che essere rimessa al giudice.
Va qui evidenziato che permanendo nell’impianto
legislativo le due ipotesi di durata determinata o determinabile del rapporto
di lavoro, i sopravvenuti profili di inidoneità del collaboratore, potranno
essere fatti valere indifferentemente su ambedue le tipologie: nel secondo
caso, infatti, pur non essendo fissato espressamente il termine del rapporto ma
essendo fissato unicamente il verificarsi di un evento o una condizione
prossimi, anche in tal caso l’inidoneità professionale del collaboratore potrà
comunque essere fatta valere in corso di collaborazione.
Sempre in materia di recesso, viene
stabilito che il collaboratore può anch’egli recedere prima della scadenza del
termine, dandone preavviso, ma solo nel caso in cui tale facoltà sia
espressamente prevista nel contratto individuale di lavoro.
Ne consegue, che in mancanza della
specifica previsione contrattuale, al lavoratore è di fatto negata la facoltà
di recesso anticipato con preavviso, esponendolo – nel caso si verifichi il
recesso anticipato – a legittima richiesta di danni da parte del committente
per inadempienza contrattuale.
Assolutamente stringente appare
infine la norma relativa alle modalità concrete di svolgimento del progetto e,
prima ancora, alla sua individuazione.
Si stabilisce infatti che salvo prova
contraria a carico del committente, i rapporti di collaborazione coordinata e
continuativa, anche a progetto, sono considerati rapporti di lavoro subordinato
sin dalla data di costituzione del rapporto, nel caso in cui l'attività del
collaboratore sia svolta con modalità analoghe a quella svolta dai lavoratori
dipendenti dell'impresa committente, fatte salve le prestazioni di elevata
professionalità che possono essere individuate dai contratti collettivi
stipulati dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale.
Ciò ha essenziale rilievo sulla
genuinità della collaborazione: il committente pertanto, nella individuazione
dello specifico progetto, oltre a escludere modalità meramente esecutive o
ripetitive per lo svolgimento del progetto individuato nei suoi specifici
elementi caratterizzanti, dovrà preventivamente comparare le prestazioni
oggetto della collaborazione con eventuali analoghe modalità espresse dai lavoratori
dipendenti dell’impresa, al fine di individuare le differenze in concreto, poste
a sostegno della genuinità della collaborazione.
La recente riforma, oggetto di
disanima, ha apportato sostanziali modifiche
sulla fattispecie (progetto) e sugli effetti (compenso minimo garantito)
rappresentando un forte e generalizzato deterrente all'utilizzo dello strumento
contrattuale. Per tutti i profili professionali, anche i più elevati, il nuovo
concetto di progetto restringerà la possibilità di ricorrere al lavoro
autonomo, pur non restando esente da ambiguità interpretative che potrebbero
incidere sulla concorrenza, almeno fino a quando non emergerà
un'interpretazione prevalente, per la probabile disomogeneità degli
orientamenti giurisprudenziali ed anche per la nota difficoltà degli uffici
ispettivi periferici del Ministero del lavoro ad operare secondo criteri
standardizzati validi per l'intero territorio nazionale, nonostante la
circolare interpretativa che più oltre analizzeremo, sia molto dettagliata. Per
i tutti i profili professionali, ma la questione riguarderà soprattutto quelli
più bassi, viene meno la caratteristica sino ad oggi più caratterizzante (ed
anche più controversa) del lavoro autonomo e, cioè, la possibilità di
compensare la prestazione solo in caso di raggiungimento del risultato
convenuto e nella misura individualmente concordata.
Se l'intenzione era quella di
limitare in generale l'utilizzo del contratto di lavoro a progetto l'obiettivo
sembra alla portata di questa riforma, fermi i dubbi (non secondari, quanto ad
effetti pratici) nella definizione del concetto di progetto.
Se l'intenzione era invece quella di
consentire l'utilizzo del contratto di lavoro a progetto solo per le
professionalità più elevate, il doppio limite introdotto dalla riforma
(restrizione del concetto di progetto e salario minimo garantito) potrebbe
rilevarsi eccessivo. Era forse possibile mettere in discussione la nozione
tecnico funzionale di subordinazione a vantaggio di un'attenta valorizzazione
del profilo della dipendenza, intesa come soggezione economico sociale del
lavoratore. Ed in una siffatta prospettiva era forse possibile lavorare solo
sull'aspetto retributivo del lavoro autonomo e non anche sul concetto di
progetto, magari legittimando l'accesso a questa tipologia contrattuale solo
qualora il corrispettivo pattuito per l'esecuzione dell'opera fosse superiore
ad una determinata soglia economica da individuare con riferimento ai livelli
retributivi intermedi dei principali contratti collettivi nazionali. Da questo
punto di vista le restrizioni all'utilizzo del contratto di lavoro a progetto
introdotte dalla riforma sembrano poco selettive e potrebbero quindi
pregiudicare, in ragione della più ristretta nozione di progetto, le
aspettative della fascia più professionalizzata degli aspiranti
[1] In
materia di lavoro autonomo gli interventi della riforma del lavoro del Governo
Monti sono tutti orientati in senso restrittivo e perseguono l'evidente
obiettivo di indurre il mercato ad un maggiore utilizzo del contratto di lavoro
subordinato. È possibile, invero, che proprio questa parte della riforma,
sebbene appena modificata, sarà oggetto di ulteriori interventi correttivi. È
dunque di primaria importanza non solo approfondire le novità legislative oggi
introdotte dalla riforma su prestazioni d'opera, collaborazioni coordinate e
continuative e contratto di lavoro a progetto ma anche - ricordato che
l'obiettivo centrale della riforma è la crescita sociale ed economica - capire
se le innovazioni introdotte sono effettivamente tarate per scongiurare gli
abusi o, piuttosto, rischiano di precludere l'accesso ad un particolare
segmento del lavoro flessibile che in questi anni ha offerto una soluzione
occupazionale per chi ambiva a gestire autonomamente il proprio tempo di
lavoro.
[2]
Grandi incertezze, derivano dal fatto che ai sensi del novellato art. 61, comma
1°, del d.lgs. n. 276 del 2003, il progetto non può comportare lo svolgimento
di compiti meramente esecutivi o ripetitivi, che possono essere individuati dai
contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni sindacali comparativamente
più rappresentative sul piano nazionale.
Da un punto di vista
sistematico va segnalato, anzitutto, che fino ad oggi anche un'attività
ripetitiva poteva essere funzionale alla realizzazione di un determinato
risultato finale come avviene, ad esempio, nel caso in cui il committente
affidi al collaboratore il progetto di riorganizzare le cartelle di un
archivio. Solo per il contratto di lavoro a progetto, e non anche per le altre
tipologie contrattuali di lavoro autonomo, è dunque per la prima volta superato
il consolidato principio secondo cui qualsiasi attività lavorativa
economicamente valutabile poteva essere dedotta in un contratto di lavoro
subordinato od autonomo a seconda delle modalità di svolgimento della
prestazione.
Ciò premesso, resta
comunque da osservare che la disposizione lascia un eccessivo margine di
valutazione discrezionale al Giudice, cui spetterà il non agevole compito di
distinguere le attività meramente esecutive o ripetitive dalle altre, se non
interpretata nel senso che questa limitazione è demandata ad accordi collettivi
sottoscritti da organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative
sul piano nazionale cui la legge affida il compito di individuare le attività
meramente esecutive e ripetitive.
Difficile, per il vero,
capire quale fosse la reale intenzione del legislatore al riguardo. Sembra più
plausibile l'interpretazione per la quale il divieto è immediatamente
precettivo ("il progetto non può comportare lo svolgimento di compiti
meramente esecutivi o ripetitivi") ma suscettibile di specificazione da
parte dell'autonomia collettiva (che "può" individuare quei compiti).
Altresì incerto è il
livello di contrattazione collettiva autorizzato a tale specificazione giacchè
se non v'è dubbio che per i lavoratori l'accordo deve essere sottoscritto da
sindacati nazionali comparativamente più rappresentativi non è affatto chiaro
se possa trattarsi anche di un contratto collettivo aziendale (dunque
sottoscritto da una singola impresa, seppur con le organizzazioni dei
lavoratori di livello nazionale).
Il dubbio deriva dal fatto
che la legge attribuisce tale facoltà alle organizzazioni sindacali
comparativamente più rappresentative sul piano nazionale senza specificare,
come invece è stato fatto in altre disposizioni della medesima legge n. 92 del
2012, se il requisito è riferito alle sole rappresentanze dei lavoratori o no.
[3] Assai
rilevanti le specificità introdotte per il settore dei call center ove il legislatore, con una modifica apportata all'art.
61 del d.lgs. n. 276 del 2001 in sede di conversione del d.l. n. 83 del 2012,
ha rimodulato l'applicabilità della disciplina generale del contratto di lavoro
a progetto nel caso in cui il contratto abbia ad oggetto "attività di
vendita diretta di beni e servizi realizzate attraverso call center "outbound"
per le quali il ricorso ai contratti di collaborazione a progetto è consentito
sulla base del corrispettivo definito dalla contrattazione collettiva nazionale
di riferimento".
Non c'è dubbio che la
novità, qualunque essa sia, è circoscritta ad una tipologia di attività ben
individuata con riferimento alla vendita di beni e servizi, effettuata dal
collaboratore tramite call center che
contattano l'utenza (outbound)
producendo chiamate verso l'esterno (l'attività di risposta alle chiamate che
provengono dall'esterno è infatti comunemente denominata inbound). Non si tratta dell'unica attività svolta con modalità outbound (basti pensare anche alle
indagini statistiche od al recupero crediti) ma certamente è l'unica attività
presa in considerazione dal nuovo testo dell'art. 61 del d.lgs. n. 276 del
2001. Ne deriva che per le ulteriori attività effettuate tramite call center outbound continua a trovare
applicazione la disciplina comune del lavoro a progetto.
Queste attività di vendita
vengono oggi assimilate a quelle degli agenti e dei rappresentanti di
commercio, per le quali il d.lgs. n. 276 del 2001 ha escluso sin dal principio
l'applicazione della disciplina del lavoro a progetto sul presupposto che i
contratti di agenzia e rappresentanza commerciale avessero già - come hanno
tutt'ora - una loro tipicità nel codice civile. Il problema, però, è che per le
attività di vendita tramite call center
outbound non esiste alcun contratto
di lavoro tipico e neanche una disciplina specifica che regolamenti l'utilizzo
delle collaborazioni autonome. Ne deriva che l'unica disciplina speciale
esistente da prendere in considerazione è quella introdotta con il medesimo
emendamento che ha modificato l'art. 61 del d.lgs. n. 276 del 2003 che, oggi,
per queste attività: a) prevede che siano utilizzati i contratti di
collaborazione a progetto ("il ricorso ai contratti di lavoro a progetto è
consentito"; c) ma ciò solo "sulla base" del corrispettivo
definito dalla contrattazione collettiva di riferimento.
Difficile intendere la
portata di questa disciplina speciale e, soprattutto, il suo rapporto con la
disciplina generale del contratto di lavoro a progetto.
Anzitutto c'è da chiedersi
se per l'attività di vendita realizzata mediante call center outbound il contratto di lavoro a progetto può essere
utilizzato solo a condizione che la contrattazione collettiva nazionale di
riferimento abbia definito il compenso dovuto oppure no. Che si tratti di una
condizione pare abbastanza chiaro nella misura in cui, letteralmente, il ricorso
al contratto di lavoro a progetto "è consentito sulla base del
corrispettivo ..." la cui strutturazione è oggi - solo per questa
particolare categoria di lavoratori a progetto - integralmente rimessa alla
contrattazione collettiva nazionale di riferimento, senza i vincoli posti dal
nuovo art. 63 del d.lgs. n. 276 del 2003 per i contratti di lavoro a progetto
in generale. D'altra parte la disposizione si potrebbe però anche interpretare
nel senso che la legge ha autorizzato la contrattazione collettiva a definire
il compenso di questi collaboratori in deroga alla disciplina generale con la
conseguenza che, in mancanza di specifiche pattuizioni collettive destinate ai
venditori dei call center outbound, è
alla disciplina generale che le parti devono fare riferimento per la
determinazione dei compensi. Interpretazione, quest'ultima, avvalorata dal
fatto che diversamente ragionando si dovrebbe arrivare alla conclusione
(opposta a quella probabilmente voluta dall'emendamento che proprio per i
venditori intendeva agevolare l'utilizzo di questi contratti) che solo per i
venditori - e non per le altre categorie di lavoratori a progetto - la legge
avrebbe condizionato l'utilizzabilità del contratto all'esistenza di un
preventivo accordo sindacale.
Altresì incerto è l'impatto
delle modifiche apportate all'art. 61 del d.lgs. n. 276 del 2003 dalla legge n.
134 del 2012 sugli ulteriori profili della disciplina generale del contratto di
lavoro a progetto ed, in particolare, sull'individuazione dei requisiti del
progetto.
Secondo un prima
interpretazione si potrebbe sostenere che per le attività di vendita tramite call center outbound il legislatore ha
autorizzato l'utilizzo del contratto di lavoro a progetto in deroga ai suoi
presupposti costitutivi. In altri termini, la deroga rispetto alla disciplina
generale del contratto di lavoro a progetto riguarderebbe anche la definizione
del progetto, che avrebbe una sorta di preventiva autorizzazione da parte del
legislatore, con la conseguenza che non opererebbero i limiti delle attività
meramente esecutive, della coincidenza con l'oggetto sociale, della
riconducibilità ad un determinato risultato finale. Il legislatore avrebbe
dunque chiarito che l'attività di vendita realizzata tramite call center outbound è validamente
riconducibile ad un progetto e ne può costituire, essa stessa, l'essenza
qualificante.
La seconda interpretazione
possibile è invece più restrittiva e porterebbe ad affermare che per queste
attività si può utilizzare il contratto di lavoro a progetto secondo la disciplina
generale dell'istituto con solo due deroghe: a) quella relativa alla
determinazione del compenso minimo dovuto, di cui si è già detto; b) nonché
quella relativa alla verifica della natura meramente esecutiva o ripetitiva
della prestazione, per la quale l'esplicita riconducibilità al progetto
dell'attività di vendita sembra destinata a prevalere, quale disposizione
speciale, sulla regola generale per la quale "il progetto non può
comportare lo svolgimento di compiti meramente esecutivi o ripetitivi". Se
così inteso, l'emendamento avrebbe dunque una portata innovativa assai più
circoscritta in quanto la riconducibilità al progetto delle attività di vendita
resterebbe di fatto possibile solo nel caso in cui il progetto abbia le
ulteriori caratteristiche richieste dall'art. 61 del d.lgs. n. 276 del 2003
sotto il profilo della individuazione del risultato finale e della non
coincidenza con l'oggetto sociale.
giovedì 11 luglio 2013
Italia condannata perché fa poco per i disabili
La Corte di giustizia dell'Unione Europea ha condannato oggi l'Italia per aver applicato in maniera incompleta i principi stabiliti dal Diritto dell'Unione nell'ambito della parità di trattamento a favore dei disabili nel diritto del lavoro. La Corte si è pronunciata a seguito del ricorso per inadempimento presentato dalla Commissione, in cui Bruxelles osservava come in Italia “le garanzie e le agevolazioni previste a favore dei disabili in materia di occupazione dalla normativa italiana non riguardano tutti i disabili tutti i datori di lavoro e tutti i diversi aspetti del rapporto di lavoro”, come invece stabilisce la direttiva Ue in materia di impiego.
La Corte oggi ha stabilito che “l'Italia è venuta meno ai propri obblighi” poiché non ha “imposto a tutti i datori di lavoro l'adozione di provvedimenti pratici ed efficaci a favore di tutti i disabili” come previsto dal diritto Ue e dalla convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità.
da www.guidaaldiritto.it
La Corte oggi ha stabilito che “l'Italia è venuta meno ai propri obblighi” poiché non ha “imposto a tutti i datori di lavoro l'adozione di provvedimenti pratici ed efficaci a favore di tutti i disabili” come previsto dal diritto Ue e dalla convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità.
da www.guidaaldiritto.it
Imprese: con la nuova AUA solo una domanda via web
Con il decreto del Presidente della Repubblica 13 marzo 2013 n. 59 - pubblicato nel supplemento ordinario n. 42 alla “Gazzetta Ufficiale” del 29 maggio 2013 n. 124 - costituisce l’ennesimo intervento di semplificazione che, al sistema “chirurgico” di eliminazione di passaggi burocratici non sempre necessari, preferisce l’accorpamento di competenze, nell’ambito di un provvedimento amministrativo unico. Infatti, a partire dal decreto “Semplifica Italia” (Dl 9 febbraio 2012 n. 5 nel testo convertito dalla legge, con modificazioni, dall’articolo 1, comma 1, della legge 4 aprile 2012, n. 35) il Governo prima e il Parlamento hanno ritenuto di semplificare gli adempimenti amministrativi in materia ambientale delle piccole e medie imprese, in relazione agli impianti di modeste dimensioni, ovvero con scarse emissioni (quindi non soggetti ad Autorizzazione integrata ambientale).
Le novità contenute nel Dpr 59/2013
A tal proposito la nuova normativa ha disposto che:
a) l’autorizzazione sostituisce ogni atto di comunicazione, notifica e autorizzazione previsto dalla legislazione vigente in materia ambientale;
b) l’autorizzazione unica ambientale è rilasciata da un unico ente;
c) il procedimento deve essere improntato al principio di proporzionalità degli adempimenti amministrativi, in relazione alla dimensione dell’impresa e al settore di attività, nonché all’esigenza di tutela degli interessi pubblici e non dovrà comportare l’introduzione di maggiori oneri a carico delle imprese.
Queste (poche) regole sono state trasfuse nel Regolamento pubblicato in questi giorni, che - a detta del Governo - dovrebbe garantire risparmi per le Pmi nell’ordine di alcune centinaia di milioni, ancorché non sono stimati gli oneri per la Pa per darne esecuzione.
La portata innovativa è certamente forte; la nuova Aua potrà sostituire sino a 7 autorizzazioni contenute nella legislazione ambientale e l’elenco potrà essere ulteriormente integrato dalla legislazione regionale applicativa.
La disposizione prevede la presentazione di un’unica domanda da inviare per via telematica a un apposito sportello (Suap); sarà poi questo che provvederà a inoltrare le richieste agli altri enti competenti. È previsto che il rilascio dell’Aua avvenga entro 90 giorni, ma i tempi possono allungarsi nel caso in cui sia necessaria la convocazione della Conferenza di servizi.
La disposizione prevede la presentazione di un’unica domanda da inviare per via telematica a un apposito sportello (Suap); sarà poi questo che provvederà a inoltrare le richieste agli altri enti competenti. È previsto che il rilascio dell’Aua avvenga entro 90 giorni, ma i tempi possono allungarsi nel caso in cui sia necessaria la convocazione della Conferenza di servizi.
L’intervento regolamentare non ha quindi un effetto novativo sul sistema autorizzatorio ambientale; si tratta di un nuovo modello organizzativo che ha l’obiettivo di deburocratizzare il rapporto Pa/Pmi.
Restano invariati i contenuti, gli accertamenti, le valutazioni, le responsabilità di chi agisce nel presentare le domande e nel valutarle, mentre si stabilisce una tempistica certa per la conclusione dell’iter, senza per questo imporre alcuna forma di silenzio-assenso conseguente alla decorrenza dei termini.
L’autorità competente al rilascio - Tra i primi temi sui quali è necessario avviare una riflessione vi è quello dell’ente competente al rilascio dell’Aua o - meglio - dell’ente presso il quale deve essere istituito lo sportello unico.
Il Regolamento si limita a stabilire che l’autorità competente è «la Provincia o la diversa autorità indicata dalla normativa regionale quale competente ai fini del rilascio, rinnovo e aggiornamento dell’autorizzazione unica ambientale».
Delle due l’una: o il rilascio dell’Aua non può avvenire in attesa di un intervento legislativo regionale, oppure l’individuazione dell’Ente-Provincia è valida sin tanto che non intervenga una diversa disposizione regionale.
Quest’ultima interpretazione appare più corretta, anche in considerazione della sentita necessità di applicare immediatamente la norma, per rilanciare il sistema economico in crisi.
Quest’ultima interpretazione appare più corretta, anche in considerazione della sentita necessità di applicare immediatamente la norma, per rilanciare il sistema economico in crisi.
Non a caso l’articolo 10, comma III, del Regolamento non condiziona la presentazione delle domande all’adozione di un Dm applicativo pur previsto, ma obbliga a presentare la domanda di Aua («...le domande per l’ottenimento dell’autorizzazione unica ambientale sono comunque presentate...») dimostrando così il favor del legislatore per una applicazione immediata.
Alla stessa conclusione si perviene accertando quale sia l’Ente preposto al rilascio dei sette sub-provvedimenti sostituiti (accorpati). Nella maggior parte dei casi si tratta proprio della Provincia.
Per completezza va segnalato che il parere della Conferenza unificata sulla bozza di Regolamento (Rep. n. 136/cu del 22 novembre 2012) prevedeva la competenza in capo alle regioni, salvo naturalmente l’intervento legislativo regionale.
Si è detto che la domanda per l’Aua è presentata a un apposito Sportello unico. Un caso analogo a quanto accade - ad esempio - in occasione del rilascio del permesso di costruire (l’ex concessione edilizia).
Il Dpr 380/2001 e successive modifiche ha imposto la costituzione di uno Sportello unico per l’edilizia che rappresenta «l’unico punto di accesso per il privato interessato in relazione a tutte le vicende amministrative riguardanti il titolo abilitativo e l’intervento edilizio oggetto dello stesso, che fornisce una risposta tempestiva in luogo di tutte le pubbliche amministrazioni, comunque coinvolte». L’istituzione dello Sportello, nel caso del procedimento edilizio, è accompagnata da un quadro normativo articolato (il Testo unico appunto) che aiuta l’interprete a comporre la situazione. Non solo.
Si è detto che la domanda per l’Aua è presentata a un apposito Sportello unico. Un caso analogo a quanto accade - ad esempio - in occasione del rilascio del permesso di costruire (l’ex concessione edilizia).
Il Dpr 380/2001 e successive modifiche ha imposto la costituzione di uno Sportello unico per l’edilizia che rappresenta «l’unico punto di accesso per il privato interessato in relazione a tutte le vicende amministrative riguardanti il titolo abilitativo e l’intervento edilizio oggetto dello stesso, che fornisce una risposta tempestiva in luogo di tutte le pubbliche amministrazioni, comunque coinvolte». L’istituzione dello Sportello, nel caso del procedimento edilizio, è accompagnata da un quadro normativo articolato (il Testo unico appunto) che aiuta l’interprete a comporre la situazione. Non solo.
Nella logica della (vera) semplificazione la norma dispone che una serie di interventi sono sostanzialmente “liberalizzati” (si pensi alla Scia, piuttosto che agli interventi non sottoposti ad alcun atto abilitativo, ex articolo 6).
Il Regolamento in esame, invece, intanto (incomprensibilmente) non si inserisce nel relativo Testo unico (il Dlgs 152/2006 e modifiche) ma, soprattutto, lascia del tutto invariati sistemi e regole dei provvedimenti sottostanti, i quali vengono degradati a sub-provvedimenti di un procedimento unitario.
Il Regolamento in esame, invece, intanto (incomprensibilmente) non si inserisce nel relativo Testo unico (il Dlgs 152/2006 e modifiche) ma, soprattutto, lascia del tutto invariati sistemi e regole dei provvedimenti sottostanti, i quali vengono degradati a sub-provvedimenti di un procedimento unitario.
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